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Saluti & Bici - Giretto 1 - "Quando i tacchini fanno glo"

si ringraziano l'autore di testi e foto  Alberto Graziani e il Giornale di Vicenza per la gentile concessione del materiale

Stamattina si parte con poca voglia, subito alle prese con automobilisti più rissosi e intolleranti del solito. Sarà perché è il primo giretto, sarà perché è sabato e di sabato circola molta gente che durante la settimana non usa l’auto e quindi non ha sviluppato la pazienza di chi invece se ne serve tutti i giorni. Ma questo è un ragionamento prolisso e stucchevole. L’accoppiata di questi due aggettivi mi dà il tormento da decenni e stanotte ho appunto sognato dell’insegnante di italiano che così suggellò il mio primo compito alle medie: “Tema prolisso e stucchevole. Voto: 4”. Badabam. Pensa che danno per l’umanità se mi chiamavo Umberto Eco. O che fortuna se Aldo Nove. Per le biciclette, la rotatoria di ponte degli Angeli è una maciullatoria, bisogna stare attenti, leggere con precisione aeronautica i moti accelerati delle auto e buttarsi in mezzo recitando, se se ne hanno, le ultime volontà. Via IV Novembre è allegra come un cotechino freddo. Credo sia la strada più triste e noiosa dell’intera città. La quinta interminabile dell’istituto Farina si scioglie nella lugubre facciata tardototalitarista dell’ex-Inam. Dall’altro lato prospetti neostorici e palazzi semifunzionalisti completano l’angoscia. L’unico brivido è dato dall’arancione degli autobus. Sono scosse a intervalli regolari, secondo il passaggio delle corse. Di fronte al bar IV Novembre, appollaiato sulle mura di San Domenico c’era il nostro “studio” di giovani universitari. Il volitivo Enrico, detto “Sbessola” per motivi facili da immaginare, Sandro, detto “Teròn grande” per distinguerlo da Mauro, a sua volta “Teròn picolo” ed io, che per i soprannomi ho sempre avuto una maledizione. Al piano terra, dove ora c’è un negozio di computer c’era una macelleria e al primo piano una vecchina solitaria, che del nostro arrivo non fu affatto contenta e per prima cosa ci vietò tassativamente l’uso del bagno, comune, nel sottoscala. Una volta tinteggiate le pareti, allacciata la stufa, sistemati i tavoli da disegno e srotolata una moquette grigio topo a pelo corto, lo stanzone divenne il nostro “studio”. Alle finestre comparvero perfino delle leziose tendine di cotone, per la qual cosa il responsabile venne preso in giro per anni.
Oltre l’incrocio sorvegliato dalle maestose chiome - ma potremmo anche scrivere chiomate maestosità - delle signore albere pioppe che per ora paiono resistere alla furia centrifugatoria assessorile, si rotola placidamente lungo borgo Scroffa. La chiesa nuova dell’Araceli svetta dalle cortine di case con la caratteristica e delirante copertura. Diversamente dalle altre arti, in architettura la tendenza a formalizzare idee e concetti è difficile e rischiosa, e
porta di norma a risultati che se non sono brutti sono ridicoli, se non sono ridicoli sono prolissi e se non sono prolissi sono stucchevoli. Così è accaduto per la chiesa dell’Araceli e per tutte le “chiese-tenda” sparse in Italia che vorrebbero essere la traduzione volumetrica dell’idea del popolo di Dio in cammino. D’altra parte, nel campo minato del Sacro l’architettura non è esente da rischi anche affermando l’autonomia critica del proprio linguaggio: perfino il politecnico Le Corbusier, presente alla consacrazione della sua celeberrima chiesa di Ronchamps incassò dal vescovo un gancio alla mascella: “Ringraziamo per il buon cemento”, disse il monsignore.
Tra lavatoi in disuso e nuovi palazzi tinteggiati al gusto di lampone borgo Scroffa sbiadisce lentamente fino all’incrocio con via Ragazzi del ‘99 e viale Trieste. Da laggiù e più oltre, incalzato dai truci titini arrivava il vecchio gestore del bar IV Novembre, da noi soprannominato “lo Slavo”. Era un profugo istriano indurito e depresso e nel lavoro metteva la medesima simpatia di un impiegato catastale con l’ulcera. Ma era un buon uomo e anche la sua famiglia,  una moglie brutta e una figlia bruttina, spiccava per la dolce mitezza degli umiliati e gli oppressi. Un poco per via del bagno e un po’ per la scarsa applicazione allo studio, dello Slavo diventammo clienti assidui e affezionati. Serviva degli stuzzichini concepiti probabilmente prima della scoperta del fuoco, gustosi ma masticabili per millenni. I pistacchi, in compenso, erano croccanti come il burro.
Lungo viale Trieste tutti, pedoni, automobilisti, pedalanti e motociclisti, scorrono con la malcelata frenesia di arrivare prima che le sbarre dell’Anconetta chiudano il passaggio. E’ un pensiero fisso, il timore che da un momento all’altro e a una distanza impossibile squilli nell’aria il metallico din-don dei segnalatori. Ma oggi no, piuttosto ci si concede una breve sosta ad ammirare il grosso ragno di ferro incollato alla parete di una casa. Era un vezzo ornamentale di almeno mezzo secolo fà, tuttora sfuggente a qualsiasi indagine socio-antropologica. Certo si potrebbe banalizzare tutto a partire dal detto “ragno porta guadagno” e dunque collegare l’epifania simbolica al semplice auspicio della buona sorte. Ma anche a non soffrire di aracnofobia, la creatura in agguato sulla parete non pare così protettiva e bonaria. “Il ragno nero” del pastore Gotthelf è il mostro che compare all’improvviso nel villaggio e straziandone orrendamente i peccatori. Se ne gode solo perché l’oggetto dello strazio sono grassi e rubicondi valligiani svizzeri, ma per il resto è un racconto spaventoso. Passando per viale Trieste, è sempre meglio controllare che sia al suo posto, si sa mai. Oltre le sbarre la strada Postumia schizza via insieme alle auto, impazienti di dare sfogo almeno alla metà dei cavalli a pascolo nel cofano.
Si pedala sulla via del console Spurio Postumio verso Aquileia su una biga immaginaria (a proposito, come si dice, a cavallo di una biga? in sella? a bordo? alle redini? al volante?) e a lato della statale scorrono platani e congrue figure mitologiche, un Ercole alle prese col leone Nemeo, un Dioniso rubizzo più per i gas di scarico che per il vino, una Venere tonnata, putti di scuola varia. Il libro di mitologia delle medie sale prepotente dal magazzino dei ricordi: non tanto per il contenuto quanto per il peso. Un volumone con la copertina in uranio impoverito che straziava i nostri giovani polsi e, manco a dirlo, l’insegnante di italiano - sempre quella, sissignori - pretendeva che lo portassimo a scuola ogni giorno. A pensarci bene io non ho fatto le scuole medie, ma tre anni intensivi di atletica pesante.
Ospedaletto sembra ormai la succursale di un quartiere cittadino. Negli ultimi anni si è riempito di palazzi e condomini multipiano che contendono il primato ai fossi e ai campi. Si fatica a comprendere la mentalità di chi volendo fuggire dal caos urbano si rifugia al terzo piano di un condominio di trenta appartamenti circondato dalla campagna. E’ per sentire meglio le liti tra i vicini mentre i grilli friniscono, le rondini garriscono e i tacchini goglottano? Vai a capire. Proseguendo verso Lisiera si incontrano una nobile dimora ormai consegnata a un destino romantico e la nostalgica pizzeria “Italia 90” anch’essa archiviata insieme a Rossi, Cabrini, Tardelli e Bearzot. Quella fu una vera festa, nobile e popolare insieme, con il garbo della spontaneità e dell’autentica gioia. Altro che Germania 2006, con lo squallido spettacolo dei campioni smutandati e le esasperazioni teppistiche di un paese di frustrati e parvenus.
Con una curva secca a destra si prosegue paralleli all’argine autostradale della Valdastico, se ne passa sotto e infine si arriva a Lisiera in rotta di collisione ortogonale con Villa Valmarana. E’ una delle stelle del firmamento palladiano, un tempo recente ospitava un’esposizione di lampadari, ora accoglie uno studio di geometri piuttosto gelosi, che non lasciano ficcare il naso nemmeno all’esterno del giardino. Verrebbe voglia di saltare il fosso e scattare qualche foto clandestina, ma quando si nasce legalisti c’è poco da fare. Una volta ho udito la seguente sentenza popolare, pronunciata in dialetto e che qui traduco in “Chi legge il cartello, non mangia il vitello”. In italiano suona ridicola, in veneto è una frase fondante, teoresi pura.   
Il tempo di un caffè al bar-trattoria di fronte alla villa, mischiati a celebrità locali in toupet, artigiani in pausa e mariti in attesa del pranzo e si riparte per l’antica via svuotata dal traffico che ruggisce lungo la bretella. Superata Lisiera e il ponte sul Tesina, ci si butta a sinistra, si passa sotto il viadotto e col pilota automatico si piglia via Tergola che introduce tra ruscelli e mulini a Bolzano Vicentino. Sulla ciclabile che porta in paese compare un triciclo abbandonato: forse il bimbo ha esaurito il carburante e, coerente con i tempi, si è allontanato per chiamare il carro-attrezzi o forse si è gettato nel fosso in seguito a una delusione amorosa patita all’asilo. Guardo nell’acqua, ma del cadaverino non c’è traccia e mi sento anche un po’ fuori di testa. D’altra parte l’appiattimento sociale, culturale e morale di questi tempi ha avuto come ultimo risultato l’adultizzazione dell’infante e l’infantilizzazione dell’adulto e quindi non c’è nulla da stupirsi se un bimbo di tre anni tenta il suicidio o un uomo di cinquantasei va in televisione a farsi rompere delle uova sulla testa. Sembra che non ci sia più un tempo per ogni cosa, come è scritto nell’Ecclesiaste, ma tutti i tempi per tutto. E io non ci sto, se vedessi mio papà col piercing sul naso o mia mamma girare con l’ombelico scoperto, li prenderei ambedue a legnate con devotissimo amore filiale. Cosa aspettarsi mai da una società di vecchi trasgressivi e giovani conservatori? Fortuna che l’artrite, l’osteoporosi e l’incontinenza vengono a mettere ordine in un universo sconvolto dal Viagra.
Al semaforo di Bolzano, non volendo visitare la chiesa arcipretale di Santa Maria affrescata da Ubaldo Oppi (sue opere anche nella basilica del Santo a Padova), si svolta a sinistra e si ripassa il Tesina verso il borgo di Crosara. D’estate si scorgono a pelo d’acqua dozzine di pesci che si crogiolano nel tepore rifratto dei raggi del sole. E questo, mi rendo conto, è decisamente prolisso e stucchevole. Proseguendo, si giunge al panificio cui va una menzione d’onore per i filoncini ai semi di papavero e le pizzette. Allo stop meritano una puntata a destra in direzione di Vigardolo la ruota del vecchio mulino e poco più avanti, piovuta in mezzo a un campo, la chiesetta paleocristiana dei Santi Fermo e Rustico. Siamo al giro di boa, ci sarebbe carburante per spingersi oltre, ma nel mondo dei giretti è meglio non fare i temerari. Tornati allo stop del panificio si prosegue diritti e si imbocca a destra il rettifilo di via Ca’ d’oro che conduce a Monticello Conte Otto. Lì c’era una delle più frequentate filiali dello studio di via IV Novembre, precisamente il sottoportico e la taverna della casa di Giuliano detto “Lupo” dove il fine settimana si allestivano generosi ricevimenti in onore giusto del fatto di essere al mondo e di trovare la qual cosa meravigliosa, soprattutto dopo aver tirato il collo a una dozzina di bottiglie di cabernet. Anno accademico dopo anno accademico, lo studio era diventato una specie di base lunare su cui convergevano decine di creature nomadi nell’infinito limbo universitario. Quasi tutti maschi, purtroppo, e tutti con severi problemi relazionali con le donne. Chi non aveva mai avuto la morosa guardava con invidia a chi ne era stato lasciato, che a sua volta invidiava chi ce l’aveva, che però era una belva: e per questo cercava consolazione con quella di altri, provocando spaventose crisi internazionali. Bubu, Ciccio, Limone, Lupo, Gambadilegno, Gamba, Bortolo, Teno,  Giuda, Sbessola, Terrone Grande, Terrone piccolo, io e tanti altri ancora: forse per interposta persona ci siamo amati l’un l’altro più di quanto era nelle intenzioni. Lasciamo Monticellum Domini Octonis, ovvero la collinetta che fu del nobile Ottone e infiliamo via Nicolosi, più che una strada, un dispositivo di contenimento demografico dei ciclisti. Essere sfiorati da più veicoli in fase di decollo dà la stessa emozione che gettarsi da un ponte legati a un elastico. In più è anche gratis. Per quelli che non amano gli sport estremi, l’alternativa è allungare un poco il percorso prendendo la prima traversa a destra che porta a Cavazzale. Quasi in fondo al rettilineo, badando bene agli asteroidi che arrivano dalle due direzioni, si può approfittare per una breve visita a villa Imperiali-Lampertico, che molti vicentini conoscono solo per esservi capitati in occasione di un battesimo, una cresima o una festa. Ma una volta tanto ci si lasci trascinare dall’amore gratuito per l’arte. Dal canto mio me ne dispenso: l’ho già vista al banchetto nuziale di mia sorella. Al prossimo giretto.

 
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