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Saluti & Bici - Giretto 3 - "La schiena dei giovani"

si ringraziano l'autore di testi e foto  Alberto Graziani e il Giornale di Vicenza per la gentile concessione del materiale

Come credo si sarà oramai capito, non amo andare in bicicletta per fare chilometri, piuttosto per vedere paesaggi, case, uomini e alberi, e possibilmente mischiarli ai pensieri che mi frullano volta in volta per il capino. Poi se mi piace raccontare quello che vedo, spero di non metterci alcuna pretesa scientifica o antropologica: sono soltanto le impressioni e gli appunti di un’esploratore del noto. In bicicletta per servirvi meglio. Nel giretto di oggi andremo nel profondo Est della provincia fino a sconfinare nell’orto dei cugini padovani. In partenza si scorre davanti all’istituto Rossi e alle sue aule finestrate che danno su via Legione Gallieno. La testolina di un ragazzo spunta solitaria da una finestra. Da come oscilla dev’essere l’interrogato di turno e gli facciamo i più fervidi auguri. Ma non solo per il voto che finirà sul registro, che si spera non essere quello degli indagati visto quello che capita nelle scuole. A leggere e sentire i mass-media, i teen-ager del Duemila sono grissini che si illudono di tagliare il tonno della vita restandone tragicamente spezzati. Appartenendo io alla sempre più rara schiera degli ottimisti (esserlo non è difficile, basta ricordare di quando le cose andavano peggio. Purtroppo vale anche per il pessimista: basta ricordare di quando andavano meglio. Allora chiudiamola qui con una patta) sono propenso a credere che l’adolescenza sia una malattia da cui tutti prima o poi guariscono. E’ vero che l’economia ha sconvolto tempi e riti familiari, è vero che i ragazzi patiscono la mancanza di solidi riferimenti, è vero che sono carne da cannone per gli strateghi del marketing, è vero che sono succubi del moloch tecnologico, è vero tutto. Ma è anche vero che l’adolescente ha delle risorse che l’adulto ha avuto e dimenticato: la capacità di vedere i profumi, di ascoltare i colori, di toccare le nuvole, di volare oltre le montagne. Troppo poetico? Forse. Come il febbrone che allunga i femori, così l’adolescenza è il periodo della crescita dell’anima. Ogni giorno si è in lotta per accordare lo ieri al domani, senza avere coscienza dell’oggi. Identità mobili e in continua lievitazione: serve abilità con la manopola del forno altrimenti bruciano o restano crudi. L’unica cosa che mi sento di dire da perfetto ignorante della materia, è che con loro non si deve giocare d’astuzia, ma d’affetto. Farli spiare da un investigatore privato perché tornano tardi alla sera causa infinitamente più danni che un sacrosanto ceffone. In un frammento pedagogico dell’antico Egitto si legge che bisogna usare il bastone sulla schiena dei giovani perché è lì che hanno gli orecchi. In un modo o nell’altro si sentiranno meno soli e una volta adulti le bastonate della vita, quelle vere, faranno meno male. Concluso il breve e disinvolto excursus sull’educazione dei fanciulli, volgiamo a destra per via Carpioni e percorsa la prima storica rotatoria della “Madonnetta” percorriamo via Fusinieri. Superati una serie di choc motoristici che prevedono l’attraversamento di via Quadri, lo scavalcamento della ferrovia e il temibile rondò di viale Aldo Moro, ci si può finalmente rilassare lungo la ciclabile di Strada di Bertesina dove contadini e vigili urbani mietono il grano, i primi con le trebbiatrici, i secondi con gli autovelox. In paese è insindacabile una breve deviazione per via San Cristoforo ad ammirare la giovinezza palladiana di villa Marcello o villa Marcello Curti o villa Gazzotti Grimani Curti, a seconda della pignoleria dei compilatori di guide. Poco oltre, fa la sua figura anche la nobile fabbrica di villa Chiericati Ghislanzoni del Barco Curti (probabili parenti dei duchi-conti Serbelloni Viendalmare), ricomposta pesantemente nella seconda metà del Settecento. Lasciata alle spalle Bertesina si procede per via del Quintarello, un nastrino d’asfalto infossato tra i campi che sembra stimolare la ferocia degli automobilisti. Scavallata la Valdastico attraverso un’interminabile rampa si punta a Nord percorrendo una fettina di territorio compresa tra l’autostrada e il fiume Tesina. E’ un rettilineo chilometrico dove le auto scorrono come particelle accelerate verso l’antimateria; chi non ama l’azzardo può buttarsi sulla destra e percorrere l’argine che conduce fino a Quinto Vicentino. Personalmente non lo consiglio, perché lo stato del viottolo in terra battuta trasforma la bici in un toro da rodeo. E nella vegetazione che supera il metro può esservi in agguato di tutto, bisce, pantegani, nutrie, linci, esattori. Milioni di anni fa, in Sardegna con un gruppo di amici motociclisti abbiamo passato la prima notte in una piazzola di una superstrada. A differenza di tutti gli altri, io mi sistemai con la testa sotto al guard-rail di metallo: una misura indispensabile per non essere fulminati nel sonno con una legnata sul cranio, come accade al povero Nicholson in Easy Rider. Per non parlare degli sciami meteorici che d’estate si accaniscono sui giovani che dormono a capo scoperto lungo le piazzole delle superstrade. Per il resto, sono uno che si gode la vacanza senza particolari apprensioni, a parte il terrore dei fulmini, del cibo adulterato, di essere rapito dagli alieni e altre paranoidi fantasie che mi accompagnano in allegria fino al ritorno a casa. Quando entriamo in una camera d’albergo, mia moglie guarda per prima cosa l’arredo generale e il bagno mentre io corro alla finestra a studiare il da farsi in caso di incendio, terremoto o cedimento strutturale dello stabile. Posso dire? Io rientro dalla ferie con la stessa sterminata gioia con cui torna a casa un sopravvissuto delle Ande.  Comunque quella notte, mentre tutti dormivano ed io ero di vedetta osservando il cielo infido e stellato da cui piovono pietre contenenti ferro, e dunque pesanti da far male, a un certo punto arriva dal buio alle mie spalle un rumore roco e potente, come cartone strappato. Mi guardo intorno ma non vedo nulla. Un paio di minuti e il rumore si ripete più forte e più vicino, allora cerco di svegliare il mio compagno di fianco, che però mi manda a quel paese e si gira dall’altra parte. Di nuovo il bramito, ruggito, rutto gigante, squarcia l’aria. Paralizzato, aspetto la fine. Per farla breve, il mattino dopo ci fermiamo in un paese poco distante dal luogo del bivacco per fare colazione. Il titolone di apertura del giornale locale era “Caccia al leone fuggito dal circo”. E il circo era lì in paese. Da allora tutte le volte che ho dormito all’addiaccio (forse una) mi sono sempre premurato che non ci fossero circhi, zoo e riserve naturali nei paraggi. Torniamo al nostro minitour: arrivati in fondo a via Quintarello, imbocchiamo il viale alberato a destra che ha qualcosa di mesto e cimiteriale. Infatti, nel fondo sui fianchi del ponte due cippi ricordano Antonio Missaggia e Gabriele Mozzi, due giovani partigiani uccisi dai tedeschi il 20 aprile del 1945. Oggi c’è tanta confusione e qualcuno ama intorbidare le acque e appiattire le posizioni solo accampando il fatto che i morti sono tutti uguali. Ma questa è una banale equazione tautologica: certo, i morti sono tutti uguali, ma per il solo fatto di essere morti. Salvo la pietà cristiana innegabile ad alcuno, resta da discutere il non trascurabile dettaglio sulle idee che difendevano e le divise che vestivano questi morti. O erano tutte uguali anche quelle? Dopo il ‘43 i tedeschi in Italia non solo diventarono tecnicamente degli invasori, ma come tali e con enorme zelo così si comportarono, razziando, requisendo, imprigionando, incendiando, decimando. Si chiama Guerra di Liberazione perché proprio da schiavi eravamo trattati. Riguardo poi i repubblichini, che si può dire del tuo fratello che prende le parti del tuo nemico? Molti forse ci si ritrovarono in mezzo, moltissimi non ebbero alternativa. Fatto si è che erano dalla parte sbagliata, fascisti con nazisti contro partigiani e - qualche storiografo della domenica tende a scordarselo - truppe alleate. Il risultato? Loro hanno perso e noi oggi siamo una repubblica democratica. Che poi funzioni a intermittenza, è un altro paio di maniche. Perdonate lo sfogo, ma era opportuno visto che in Germania i revisionisti finiscono in galera e in Italia in libreria. Fortuna che le forme palladiane di villa Thiene sono nei pressi a restituirci un poco di armonia e serenità perdute. Alle spalle della chiesa parrocchiale di Quinto è bene dare un’occhio all’antica dimora presbiteriale del 1734, magica venezianità trapiantata nel profondo entroterra. Tornati sul corso principale di Quinto, una ciclabile spunta insperata sulla sinistra e ci conduce fino al quadrivio rotatorio che smista a Colzé, Valproto e Gazzo. Si procede dirittti come fusi verso il comune padovano, probabilmente uno dei più dileggiati d’Italia, vista la pericolosa assonanza del toponimo. Sono chilometri in apnea nell’aperta campagna fino a guadagnare le prime case al limitare di Villalta di Gazzo. Che cosa può mai essere la periferia di una frazione di paese? Un panificio, dei cagnetti iracondi, una casa colonica, un melograno abbandonato e carico di frutti, due anziani in mezzo alla strada e un capitello neogotico. Ci sarebbe quasi da commuoversi, ma bisogna pedalare. Al capitello si piglia a destra per via Colombo e si raggiunge in breve Gaianigo, altra frazione di Gazzo che secondo lo storico Marzari (tranquilli è del secolo scorso, quindi non può essere di parte) deve il nome alla gens romana dei Geganii. Oltre a due cooperative che producono dell’ottimo Grana Padano, Gaianigo ospita anche villa Forasacco conosciuta come la ”Peschiera” e di cui non siamo riusciti a portare a casa un reperto fotografico in quanto intimoriti da un assai poco amichevole sbraitare di cani. Oltre Gaianigo una brusca curva mette in direzione sud-ovest e in stretto giro di pedali si arriva a Grantortino, altra frazione del comune di Gazzo. Abbandonando la bici e avventurandosi sui campi di fronte la strada si potrebbe vedere la settecentesca villa Tacchi e i suoi rustici dove ogni anno si tengono le feste della semina del riso e del raccolto del grano maranello. Noi ci si accontenta del campanile che reca ancora gli sbrecci dei bombardamenti americani e rientriamo nell’orbita vicentina seguendo diritti fino a Marola. Se Vicenza ha Santa Bertilla, Marola ha Eurosia Fabris Barban, beatificata da Giovanni Paolo II il 6 novembre 2005. Nata a Quinto Vicentino, ancora bambina si trasferì con la famiglia a Marola dove visse fino al 1932 una vita di sacrifici, dedizione e carità. I pensieri delle ultime pedalate verso casa rischiano di elevarsi sopra il piano stradale e infatti al gestaccio di un automobilista insoddisfatto della mia traiettoria, mi trovo a rispondere con un mite sorriso. Amore del prossimo o semplice paura di essere menato? C’ è da rifletterci sopra, ma al prossimo giretto.



 

 
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