Saluti & Bici - Giretto 4 - "Cacofobia"si ringraziano l'autore di testi e foto Alberto Graziani e il Giornale di Vicenza per la gentile concessione del materiale
Oggi si va verso nord immersi nell’aria afosa, umida e frizzante di una stagione ancora indecisa tra estate, autunno e inverno. Io non so se la botta dello tsunami indonesiano abbia o no, come dicono i complottisti, spostato di mezzo grado l’asse di rotazione terrestre. Non so se l’effetto serra sia responsabile dello squagliamento dei poli e se questo a sua volta, diminuendo la salinità degli oceani vada a rallentare la corrente del Golfo. Non so nemmeno se c’entri il buco dell’ozono e poco o niente potrei dire delle tempeste solari. M’intendo di climatologia quanto un parrucchiere di centrifughe nucleari. Fatto è che, pur dubitando che possano formarsi degli improvvisi tifoni in una giornata di ottobre semicontinentale padano, annusando l’aria domani sarà più prudente zavorrare la bicicletta con delle barre di piombo. Dal quartiere di San Marco, attraversiamo viale D’Alviano e rulliamo lungo via Lamarmora, strada di case popolari e di caserme. Dritti come una rompighiaccio, passiamo attraverso l’enorme bruco di automobili all’intersezione di viale Dal Verme e continuiamo per via S. Antonino. Un bimotore bianco grande quanto un gabbiano morde le nuvole e con i motori scoppiettanti plana sulla pista dell’aeroporto. Ci sono dei periodi in cui è assiduo e per settimane arriva e riparte circa alla stessa ora. Poi scompare anche per un mese e a solcare il cielo berico resta soltanto qualche piper tossicchiante. Chissà quali storie dietro il misterioso velivolo: un ricco businessman che manda a prendere l’amante vicentina? un traffico clandestino di baccalà? un trasporto centellinato uno a uno dei paracadutisti americani di stanza in Germania, così intanto riunificano il battaglione e noi manco ce ne accorgiamo? Fortuna che la bici è un magnifico frullatore di questioni, afflizioni e supposizioni: parafrasando la sentenza latina, “pedalando solvitur”. Abbandoniamo precocemente via S. Antonino e infiliamo una stradina a destra subito dopo la sede staccata dell’Istituto Lampertico. E’ un viottolo ciclopedonale che taglia verso Laghetto confluendo in via B. B. da Breganze, che non è Brigitte Bardot, ma il Beato Bartolomeo. Sulla sinistra un enorme condominio sospeso sui campi pare un traghetto in attesa della pilotina per entrare in porto. A parte i lampioni e i marciapiedi, non è una zona molto servita. Sentirsi dire “vado a comprare le sigarette” vuol dire che la persona starà via almeno per un’ora visto che il tabaccaio è a circa un paio di chilometri. Dunque nessuno si allarma più di tanto. Allo stop prendiamo a destra e percorriamo via dei Laghi, il cordone ombelicale che unisce Laghetto alla città. Il quartiere è una fiera campionaria dell’edilizia. In un tripudio di accrescitivi, diminutivi e vezzeggiativi si va dal villone isolato al condominione popolare, dal villino alla casuccia fino alla villetta a schiera in tutte le declinazioni stilistiche immaginabili. C’è il rivestimento in legno, il tetto piatto, il tetto spiovente, il mattone a vista, il cemento brutal, l’intonaco colorato, graffiato, liscio, davanzali di marmo, di pietra, di granito rosa, serramenti di legno, di alluminio, di plastica, di ferro dipinto, imposte e tapparelle policrome su finestre rettangolari, quadrate, tonde, monofore, bifore, trifore, quadrifore. Ma parlando di Laghetto si parla dell’Italia intera: l’ultimo linguaggio unitario del costruire è stato quello diviso a metà tra razionalismo e littorialismo, una miscela di aromi moderni e scimmiottature imperiali. Dopodiché l’allegro e caotico carnevale delle forme si è impossessato delle periferie dell’intera penisola. Solo da noi è dato di vedere su una stessa via un trullo accanto a uno chalet di fianco a una palafitta accanto a un tucùl. Se per caso la tipologia edilizia è la stessa, scatta allora la gara a personalizzare i parapetti dei balconi, il colore delle tapparelle, della recinzione, degli intonaci, il portoncino d’ingresso e perfino la targhetta del numero civico. Anche nelle estreme dimore riusciamo a essere polimorfi, non c’è tomba uguale all’altra, non c’è scultura, lapide, vasetto portafiori che non cerchi di differenziarsi per eccesso o per difetto. Gli italiani seminano il caos anche nella vita eterna. Come ha fatto quella volta il mascellone a intruppare il paese degli individualisti è un mistero che il bastone e l’olio di ricino spiegano solo in parte. Non resta che andare avanti e con la speranza che un giorno anche qui da noi s’imbocchi la strada del decoro urbano e extraurbano, imbocchiamo a nostra volta l’amena ciclabile con ponticelli in legno e romantiche panchine che conduce da Laghetto a Polegge. Allo stop prossimo alla chiesa, svoltiamo a sinistra e dopo circa mezzo chilometro ancora a destra per una stradina che porta in fronte a un complesso rurale verosimilmente neoclassico. Villa Barbieri, mi è stato risposto da una gentile vecchina che abita nelle adiacenze. Proseguendo sulle destra paralleli alla villa, si passano in rassegna dei tobleroni di fieno ricoperti di teli di plastica che non sfigurerebbero alla Biennale di Venezia e si sbuca in via Cimitero di Polegge, dove si svolta a sinistra e allo stop con via Cresolella a destra plausibilmente verso Cresole. Lungo la via guardiamo con occhi ammirati come costruivano le loro case i nostri bisnonni e forse anche trisavoli, involontaria gens vitruviana che sapeva mettere insieme geometrie solide e volumi proporzionati. Superato il ponte sul Bacchiglione, si giunge nel centro del paese segnato dalla chiesa e dall’ancona trisdedicata con immagini scultoree di S: Antonio da Padova, la Vergine Maria e non sappiamo bene chi, comunque data la compagnia, un altro Santo di sicuro. Appena oltre l’ancona si prende a destra per via Caldonazzo e si pedala tra casette in Canadà e campi coltivati. Ad un certo tratto, a ore nove il piatto paesaggio agricolo è interrotto da una macchia boscosa e dai ruderi di una vecchia casa colonica dipinta a fasce bicrome rosse e bianche. Decidiamo di andare in avanscoperta e lasciamo la bici a bordo strada come eventuale segnale che qualche sprovveduto ficcanaso è andato a cacciarsi nei guai. La campagna è sublime, ma vista dall’asfalto. Camminare sulla terra fangosa e sulle zolle rivoltate è veramente una fatica boia. Nella trepidante attesa che arrivi un pittbull idrofobo o un villano con la faccia di Stevanin (ricordate il mostro di Terrazzo?) ci diamo a esaminare le rovine e i resti pericolanti di quella che doveva essere la magnifica dimora di un illuminato amante del mondo agricolo. “Nihil agricultura melius”, per dirla con Cicerone. L’abbandoniamo anche a noi al suo triste destino passando innanzi al solitario albero di cachi e riprendiamo la bici arrivando all’incrocio con la strada di Vivaro. Qui occorre fare un po’ di attenzione, perché dopo aver svoltato a destra, dopo una cinquantina di metri bisogna prendere a sinistra per la seminascosta via Due Ponti. Io i cachi non li sopporto. Sarà lo choc infantile di averne mangiato uno di acerbo, accompagnato dall’orrendo ricordo delle gengive che si rattrappivano, sarà per via del nome poco invitante. D’altra parte non sembra un frutto così ricercato: il caco carico di cachi è costante nei nostri paesaggi quanto i lampioni di cemento ed è una presenza che dura da ottobre a dicembre, segno che oltre agli umani pure i volatili non trovano il frutto così prelibato. Per finire non ho mai visto la composta di cachi, la crostata di cachi, il flambé di cachi o qualsiasi forma di arte pasticciera a base di cachi. Significherà pur qualcosa. Mi immagino gli amanti dei cachi come una setta segreta, la loggia del Gran Caco presieduta dal venerabile cacatore. E poi il caco è flaccido, ha la polpa viscida e un gusto indecifrabile. Sono belli da vedere appesi alla pianta come tanti lumini arancioni che contrastano con i rami neri e nudi. Via Due Ponti conduce subdolamente alle spalle di Caldogno. E’ uno stradino da ciclonauti intenditori che si dipana tra i campi. Vi si incontrano stalle di cemento vaste come hangar, pittoresche dimore contadine e simpatici vegliardi che guidano automobili d’antan perennemente in prima. A Caldogno si sbuca nella nuova piazza Europa, amorfo contraltare prospettico della palladiana Villa Caldogno, si passa il rondoncino (la moda è arrivata anche qui) davanti alla chiesa e si prosegue fino all’incrocio con la statale per Thiene. Qui occorre fare particolare attenzione alla semicurva sulla sinistra da cui si materializzano bolidi incandescenti e autoarticolati a briglia sciolta. Prima di attraversare chiediamo comunque la protezione di Santa Caterina da Siena, che oltre a essere patrona d’Italia insieme a S. Francesco d’Assisi è anche protettrice dei ciclisti, oltre che delle lavandaie, dei tintori, dei boy-scout, gli infermieri, le sarte e le giovani da maritare. Volendo ci si può raccomandare anche alla meno nota e forse meno indaffarata Santa Caterina di Alessandria che patrocina filosofi, oratori, filatrici, notai, ciclisti e carrozzieri. Arrivati sani e salvi sull’altro lato della strada, scambiamo quattro chiacchiere con un paio di somarelli dentro un recinto. Mi piacerebbe moltissimo avere un asino, è una bestia sensibile, intelligente e affettuosa. Purtroppo i regolamenti condominiali non lo consentono e anche a condurlo nottetempo dentro casa, che vita sarebbe mai quella di asino da appartamento? Lasciati a malincuore Pinocchio e Lucignolo, continuiamo il nostro giretto giù per via Chiodo che fila via ortogonale dallo stradone per Villaverla e va a sbattere contro la statale 46 all’ingresso di Castelnovo. A parte un paio di capannoni industriali all’inizio, sono circa tre chilometri dove lo sguardo può correre libero sui campi fino al Summano. A occhio sono terre basse e alluvionali, percorse dal torrente Giara, e dal Leogretta e dal fiumicello Timonchio, che poi arriva in città, fa fortuna e diventa nientemeno che il Bacchiglione. Senza contare tutti i serpentelli d’acqua che giungono a capofitto dalle colline di Ignago e Torreselle. Un villone bifamiliare con arcate d’ordine gigante ci riporta all’odierna civiltà e in pochi giri di pedale, passato l’incrocio con la statale, imbocchiamo l’ingresso principale di Castelnovo, “a nice place to live” come sta scritto sotto la segnaletica di molti paesini americani. L’ho visto nei film, in America sono stato solo una volta col mio papà in viaggio di affari e avevo 13 anni. Età in cui non ci rende conto di viaggiare dentro un tubo a mille all’ora e a dieci chilometri da terra. C’è aria di ritorno a casa, i polpacci pesano come barre di uranio e per la miliardesima volta pensiamo che sì, domani sarà il giorno perfetto per smettere di fumare. Castelnovo è grazioso e ben tenuto come tutti i Castelnovo sparsi nella penisola. Di mia personale conoscenza posso dire di Castelnovo del Friuli, paese dove fu giovane parroco il nostro vescovo Nonis, ora en retraite; è uno splendido borgo nei pressi di Spilimbergo, meta non impossibile di una piacevole gita domenicale. E di Castelnovo Bariano, comune di Rovigo al confine con il Mantovano dove Matilde di Canossa fece erigere il suo castello (distrutto nel 1870, a scanso di equivoci). Il quinto anno di università, parte dell’esame di Restauro architettonico consisteva nel pigliare un paio di comuni del Veneto e setacciarli in cerca di ville e dimore di pregio storico-artistico delle quali stendere un rilievo grafico e predisporre una schedatura in vista di una catalogazione regionale. A me e Chiappo capitò appunto Castelnovo Bariano insieme all’attiguo comune di Melara. Per l’intero mese di luglio facemmo la spola tra Vicenza e il Polesine sull’asse Lonigo- Cologna-Legnago. Chiappo guidava la sua Panda Rossa 1000 come un kamikaze in cerca di una portaerei nemica, io intanto dormivo e nei rari momenti di veglia mi raccomandavo l’anima. A Melara non trovammo niente di più antico di una paninoteca in stile moresco. Andò meglio a Castelnovo dove pescammo dal mazzo un complesso seicentesco con tanto di cappella, peschiera e limonaia, abitato da un signore magro e triste, che probabilmente era uno spettro. Ma chiedo scusa abbiamo divagato oltre al consentito. Da Castelnovo, si costeggiano le mura di Villa Osboli e sulla barchessa è da ammirare un delizioso trompe-l’oeil che raffigura le schermaglie tra una popolana e un bel micione rosso. Poco oltre sulla curiosa quinta muraria che delimita una curva a gomito si avverte che “E’ proibita la corsa rapida”. Considerata la posizione al termine di un chilometrico rettilineo, dev’essere quel che rimane di un’abitazione dove d’abitudine molti entravano in salotto direttamente in automobile. Lasciato Castelnovo e l’insolita torre che ne vigila l’accesso meridionale, si pedala fino a Costabissara. La composita fontana nel parchetto centrale attira l’attenzione, soprattutto la scultura del bimbo a cavallo di un pellicano. Si spiega per via che l’uccello è, diciamo così, la mascotte dei Donatori di sangue e che il parco è intitolato all’associazione. A essere pignoli, il pellicano è un simbolo cristologico, originato dalla credenza che la femmina si laceri il petto per nutrire i figli: vederlo interpretato in modo così ludico, crea un po’ di sconcerto, ma Gesù amava giocare con i bimbi e in qualche modo tutto si tiene. |
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