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Saluti & Bici - Giretto 5 - "Occhiali da sole"

si ringraziano l'autore di testi e foto  Alberto Graziani e il Giornale di Vicenza per la gentile concessione del materiale

Quello di oggi è un giretto il più possibile al riparo da clacson, pistoni e marmitte. Arrivati all’Arco delle Scalette di Monte Berico, ovvero Porta Monte dove insiste, persiste e resiste nello spirito anche se non più negli arredi l’ultima storica osteria della città, si prende la nota ciclopista “Riviera Berica”. A differenza delle ciclabili austriache o nordiche in generali, su quelle italiane regna un clima di gaia incertezza. Quelli con le bici da corsa pensano di essere in un velodromo per il record dell’ora, gli sportivoni con le mountain-bike procedono affiancati come coorti romane e non si scostano neanche mostrando loro una bomba a mano, i podisti stanno in ogni dove tranne che nella loro corsia e, pericolo supremo, le mamme con le carrozzine procedono come libellule a caccia di moscerini. Se si aggiungono a questo baillamme i pattinatori a rotelle che agitano i quattro arti per tutta la larghezza della pista, in breve si realizza che andare in bicicletta sulla tangenziale non è poi così terribile. Chiaro che stiamo un pochino esagerando, ma specie la domenica il quadretto appena dipinto non è così astratto. In ogni caso, arrivati al punto dove la ciclabile attraversa la Riviera Berica, noi si tiene la destra pigliando per via della Rotonda. Mascherata da pittoresco viottolo è in realtà una rampetta subdola che morde i polpacci e sale fino allo stomaco dove è ancora in transito la colazione del mattino. Che, malgrado la sensazione, non è stata a base di spezzatino di cervo e patate. Al culmine della via, dopo una rapida occhiata all’ingresso monumentale che incornicia villa Almerico Capra, si rotola in discesa frenata per un breve tratto e si svolta bruscamente a sinistra per Stradella della Rotonda. L’operazione richiede doti acrobatiche e sangue freddo, nonchè una dose massiccia di fortuna, dato che l’incrocio è semicieco e ci si può facilmente ritrovare spalmati sul parabrezza di una macchina. Per le prime volte consigliamo di frenare quasi fino all’immobilità e quindi girare in tutta calma. Il muro di pietra da un lato, il fosso e un filare di alberi dall’altro, la stradella pare uscita da un incubo claustrofobico che induce la pedalata a ritmi di fuga. Sbucati all’interno di Campedello, proprio a fianco della scuola elementare, si prende a destra per strada della Pergoletta, punteggiata da graziose case e casette immerse nel verde che ispirano al cittadino affittuario condominiale un profondo senso di invidia e una rinnovata speranza nel Superenalotto. Più avanti lo sguardo incontra i dolci declivi dei Colli Berici che scendono da ovest mentre in fronte il fitto serpentone della Milano-Venezia  riempie l’orizzonte del suo cupo rombare. Arrivati allo stop, prendiamo a sinistra lungo via Porciglia. Vi si affacciano delle casette minime, più fiabesche che popolari e l’aria odora di bucato fresco e polenta abbrustolita. Il miraggio olfattivo perdura fino all’incrocio con la statale: qui se ne percorre un breve tratto verso sud per ricacciarsi subito nella ciclabile alla prima traversa sulla sinistra (via Ca’ Tosate, per i più esigenti). Ne percorriamo circa un chilometro, sfilando tra ordinati vitigni e disordinati pedoni. Il deposito di materiali per l’edilizia all’imbocco del sottopasso autostradale offre alla vista un vario campionario di arredi prefabbricati da giardino, vasche, fontane, vasi, perfino cementizie cucce per cani che fanno freddo solo a guardarle. Non so, ma il mondo del “pre”, pre-fissato, pre-stabilito, pre-cotto, pre-confezionato, pre-preparato, mi suscita un profondo pre-giudizio. Mi rendo conto che tutto ormai è serializzato e standardizzato, dall’abbigliamento al divertimento, ma qui siamo ancora in un ambito di possibili modifiche e appropriazioni. Quello del prefabbricato è invece il passo successivo in un mondo fatto e compiuto che non offre margini interpretativi: una busta surgelata di spaghetti alla carbonara precotti va scaldata, mangiata e trasformata in calorie. Se invece io preparo la pasta alla carbonara procurandomi: 1)confezione di spagnetti 2) busta di guanciale di maiale a pezzetti 3) confezione di uova d’allevamento 4)pezzo di parmigiano in busta 5)olio d’oliva in bottiglia 6)confezione di panna liquida, sono ancora nel regno del possibile e poco importa se otterrò alla fine  un piatto squisito, modesto o immangiabile. Certo così non sfuggo alla pre-condizione del confezionamento imposto, ma almeno non sottosto alla condizione imposta del pre-confezionamento. L’ideale sarebbe farsi la pasta in casa, ospitare un maiale nel tinello che sia disposto di tanto in tanto a farsi limare una ganascia, tenere un paio di ovaiole in terrazza, comprarsi le olive e macinarle nel piccolo frantoio ricavato nello sgabuzzino e infine frequentare un corso da casaro per imparare a fare il parmigiano. “Volere è potere”, diceva la mia bisnonna tirando il collo ai polli del cortile. Ma erano altri tempi e le pre-epidemie di Aviaria ancora non c’erano. Andiamo avanti per la ciclopista che segue fedelmente il vecchio tracciato della ferrovia per Noventa salvo che nei pressi della cartiera, dove si arrotola in una specie di ansa fluviale per dare spazio all’ampliamento della fabbrica. Una cosa insolita, dato che il sedime ferroviario è terreno tradizionalmente demaniale: facciamo così, nessuna illazione in cambio di qualche spiegazione. Tanto così per capire. Abbandoniamo la ciclabile a Longara dove un cartello con la freccia a destra indica il lago di Fimon. All’incrocio con la Riviera Berica, ci si trova di fronte alla strada di Longara, ma noi ciclonauti in cerca di maggior tranquillità, attraversiamo la statale e la seguiamo per una trentina di metri. Alla casa d’angolo del fornaio (pane croccante e saporito, vivamente raccomandato) pigliamo a destra per la strada comunale delle Grancare, un agricolo raccordo anulare che collega Longara, Pianezze, Torri di Arcugnano e il Tormeno. Disegnata ai piedi delle colline, fredda d’estate e gelida d’autunno, la strada offre a occidente un paesaggio vallivo di campi ben curati e robuste case contadine, alcune con evidenti trascorsi patrizi come villa Papadopoli, della prima metà del Settecento. Un paesaggio che nel primo tratto è rovinato dalle vecchie cave a lato monte adibite a discariche abusive: materassi, reti, carcasse di televisori, divani sfondati. Piacerebbe capire la psicologia del discaricatore clandestino, uno che sta alla raccolta differenziata come Saddam ai curdi. Perché caricare il vecchio televisore in macchina, aspettare la mezzanotte, percorrere dei chilometri, inquinare l’ambiente e rischiare una multa da duecento euro quando si potrebbe andare giornotempo all’ecocentro del comune di residenza, pagare qualche euro e salutare col dovuto rispetto l’anziano elettrodomestico?  Si avrà mica ucciso il genero a colpi di televisore, dovendo poi disfarsi dell’arma del delitto? Più avanti la strada curva dolcemente sullo sfondo di una valletta chiusa e s’impenna inaspettata fino a guadagnare le prime case dell’abitato di Pianezze. In un leggero e schizofrenico saliscendi si passa davanti alla “Risorta”, una delle rare trattorie dove l’euro non è riuscito a raddoppiare i prezzi e a dimezzare la qualità. Parlo a titolo gratuito e del tutto personale, non faccio pubblicità occulta né m’intendo di gastronomia. Per rendere felice il mio palato basta un uovo sodo e un bicchiere di cabernet-sauvignon, magari della zona del Lisòn, magari anche due. Mi sono sempre chiesto come fanno a redigere le più famose guide gastronomiche, quelli che assegnano stelle e stelline in giro per il mondo. Come è organizzata tutta la faccenda? Prendiamo l’Italia: se fosse una sola persona impiegherebbe tre esistenze nonuagenarie prima di assaggiare tutti i ristoranti. Anzi, diciamo nove esistenze trentennali considerando i malanni professionali del mestiere. Ci sarà un redattore-capo per ogni regione cui fanno riferimento i redattori provinciali. Prendiamo la nostra provincia, 121 comuni e facciamo una media di due buone trattorie ciascuno. Fanno 242 locali da visitare. Insomma il redattore provinciale deve mangiar fuori un giorno sì e l’altro pure, contando ferie, malattia e permessi vari. Al 184esimo ristorante anche se gli portano una fesa imperiale di struzzo al porto bianco, quante papille gustative gli saranno rimaste, tre, quattro, sette? E’ facile intuire che anche il responsabile provinciale si avvalga di un paio di fidati agenti di zona. Questo però porta alla proliferazione incontrollata dei palati, dei gusti e dei giudizi. Se capita ad esempio che il giornalista gastronomico Pinco che odia il pesce debba giudicare la trattoria Pallino con specialità pesce, quale serenità di giudizio aspettarsi? Forse ordinerà un tost e sulla guida magnificherà un’orata che starà a voi trovare indecente. Fidatevi dell’istinto, le guide servono solo a far perdere l’orientamento. Comunque noi si procede nel nostro giretto, uscendo finalmente da strada delle Grancare e prendendo a tutta birra sulla sinistra per via Palù, poi via Boeca che precipita giù al lago di Fimon. Dalla veemente discesa un abile ciclonauta scolpito dal vento arriverebbe senza pedalare fino al colmo del ponticello. Noi si è arrivati fino all’attacco, ma va bene così e cominciamo il ghiaioso periplo del lago in senso orario. Il “sito” di Fimon, a oggi scampato per miracolo alla deflagrazione edilizia planetaria, anche se di fronte alla discoteca-pizzeria sono spuntati di recente inquietanti gabbiotti di legno che distribuiscono bibite e patatine, è un paesaggio fossile. Mancano solo una coppia di dinosauri a mollo e un vulcano in attività sullo sfondo e sarebbe perfetto. A percorrerlo si prova un senso di estraneità, come degli intrusi nella proprietà privata di un’epoca a cui non siamo appartenuti. Nè si trova qualche umana rassicurazione scrutando le facce neaderthaliane dei pescatori misantropi infrattati tra le canne. E’ terra di vertigine preistorica e verrebbe voglia di fermarsi ai margini del lago e accendere un fuoco strusciando per ore due bastoncelli. L’acqua è ferma come una pellicola tesa, anche i cigni se ne stanno all’asciutto imitando le schiere di barchette capovolte e disposte in file ordinate. Il vecchio pontile che si specchia nel lago come un incorreggibile narciso interrompe i cascami lirici; il bitume e l’asfalto danno il cambio al ghiaietto e la pedalata torna a scorrere fluida. E’ tempo di saluti, arrivederci lago di Fimon, arrivederci barchette appoggiate come foglie ai tronchi d’albero. Arrivederci scuola di vela. Ho fatto una sola lezione, un giorno di settembre con Matteo, Stambino e l’istruttore. Una lezione che iniziò male fin da subito. Stambino mi aveva prestato gli occhiali da sole, prezioso regalo di sua mamma. Eravamo sul pontile, io avevo appena inforcato gli occhiali di Stambino quando un calabrone è venuto a importunarmi. Io ho il terrore dei dittèri, in specie i calabroni. Non sono allergico, sono un vigliacco. Mi sono agitato, ho menato dei fendenti con le braccia e ho colpito gli occhiali che sono finiti nel lago. Stambino era mortificato. Io con lui. E Matteo con noi. L’istruttore Giorgio, esasperato come Ollio, ci ha dato una specie di retina gigante per il recupero di capsule spaziali ammarate. Abbiamo dragato e ridragato. Niente da fare, solo fanghiglia e buste di plastica. Il lago di Fimon interpreta tutto come un regalo e i regali non si restituiscono. Alla fine siamo usciti con la barca a vela e siamo arrivati remando al centro del lago. “Adesso aspettiamo l’isotermica”, ha detto l’istruttore Giorgio. Stambino aveva un colore verde e stava muto come un cane in una cuccia di cemento. Mal di mare prefabbricato. Erano circa le undici, non c’era un filo d’aria e il sole picchiava a piombo sulle nostre zucche. Io desideravo sopra ogni cosa tornare a casa mia e Stambino tornare a casa sua con gli occhiali regalati da sua mamma. L’unico serio era Matteo, che aspettava l’isotermica mentre l’istruttore Giorgio si limava le unghie dei piedi con un cacciavite. Non so quanto tempo sia passato così, forse un paio d’ore. Poi l’isotermica è arrivata e mi sono ritrovato al timone di un motoscafo impazzito. L’isotermica è un colpo di vento mostruoso che arriva come una richiesta della Rai di pagare il canone dopo anni di evasione. L’istruttore Giorgio urlava comandi in una lingua aliena, che io interpretavo fatalmente all’opposto. Poi l’isotermica è cessata. Tornati alla piccola darsena, abbiamo dragato ancora il fondo del lago in cerca degli occhiali. Fu una  mattinata indimenticabile. Dopo quella lezione, Stambino si iscrisse al circolo del bridge e io gli regalai un paio di orribili polaroid e mi diedi al badminton. Matteo continuò fino alla patente nautica. Strano che ancora non ci abbia invitato a fare un giro in barca. Quanto al mal di bicicletta, beh, non si è ancora sentito alcuno che ne soffra, quindi arrivati a Torri di Arcugnano scappiamo verso il Tormeno e sempre dritti fino a S. Croce Bigolina. Da qui basta inserire il pilota automatico e farsi condurre fino a casa lungo la ciclopista della Riviera. Magari con una breve sosta all’osteria di Porta Monte giusto per sentire cosa dicono i vegliardi del Governo e del Lanerossi Vicenza. Al prossimo giretto. 

 
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