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Saluti & Bici - Giretto 8 - "La legge del sottopasso"

si ringraziano l'autore di testi e foto  Alberto Graziani e il Giornale di Vicenza per la gentile concessione del materiale

Tendiamo spesso a parlare della bicicletta in astratto, con la sovraimpressione di ingombranti concetti come libertà e felicità. Eppure la bici viene prima dell’andare in bici, è la metà inferiore di un corpo biomeccanico di ruote e di gambe, piedi e pedali, mani e manopole. Diversamente dall’automobile, la bici non incide sul carattere, ma influisce sul pensiero. Il moto circolare delle ruote e dei pedali si propaga alla mente, e i pensieri, da lineari e inconcludenti diventano circolari e a volte anche ossessivi. La solitudine del ciclista, la biciclitudine. E siamo caduti di nuovo nell’astrazione, quando invece volevamo parlare in concreto della bici in quanto bici. La mia bici, insomma, è una normale bici da uomo, una “city-bike”, come si dice oggi. Né sportiva né da corsa, una bici da strada e da paesaggi. Quando arrivano quei particolari momenti in cui si tirano le somme parziali della propria esistenza, oltre l’infanzia, la giovinezza, gli studi, il lavoro, i viaggi, gli affetti, si dovrebbe mettere nel conto anche le bici avute, perdute, rubate, sostituite, dimenticate. Nella ricostruzione dei bilanci esistenziali è una voce purtroppo spesso tralasciata. Eppure basta pensare solo alla biciclettina rossa, blu o gialla e ai primi giretti esplorativi fuori dal quartiere; la bici che ci portava dalla morosa; la bici rubata alla stazione ferroviaria; la bici scagliata nel fosso litigando con la morosa; quella dimenticata a casa di un amico e perduta in una silenziosa usucapione e tante altre ancora. Poi, mi rendo conto, c’è chi per trent’anni ha avuto sempre la stessa bici. Magari anche lo stesso lavoro, la stessa casa, stessa moglie, stesso divano, stesso balsamo per capelli. Ma va bene così, mica possiamo essere tutti Richard Burton e Liz Taylor. Volevo soltanto sottolineare la presenza fedele e discreta della bici nell’economia storica di ogni esistenza, punto. E ora partiamo per il nostro giretto da ponte degli Angeli prendendo per San Pietro e poi dritti giù per borgo Casale fino ad affrontare il primo dei due lugubri sottopassaggi che corrono sotto le ferrate della Vicenza-Schio e la Milano-Venezia. Una volta, nella totale follia ormonale dell’adolescenza, feci le due ripide rampe a scaracollo sulla bici, planando su una ruota anteriore e un paio di vertebre ovalizzate. Mi protesse Santa Rita, quantunque non patrona dei ciclisti, ma data l’impossibilità della performance, sicuramente dei ciclisti impossibili. Confesso che avrei ancora un pochino voglia di ripetere il gesto. Mi ferma solo l’immagine di mia moglie in lacrime - reparto di ortopedia - accanto a una mummia con duecentosedici ossa fratturate. Ecco una definizione calzante di “responsabilità”: drastica diminuzione dell’elasticità osteo-muscolare. Il sottopasso è buio e la lucina in fondo al tunnel ricorda tanto quel che si legge a proposito delle esperienze pre-morte. Solo che qui, all’uscita, non ci attende il paradiso ma un ristorante-pizzeria con specialità pesce. Rotoliamo giù per l’altro sottopasso e finalmente possiamo riprendere la bici e correre liberi lungo la strada di Casale. Incontriamo sulla sinistra le officine Lovato e dopo aver informato i sindaci Moratti, Veltroni e Jervolino che qui si è brevettato un motore a GPL anche per quei giganteschi ammorbatori d’aria che sono i motorini, proseguiamo fino a incontrare la timida facciata di villa Piovene-Pigatti, sperduta nel fondo del parco. Proseguiamo per qualche decina di metri e giriamo a sinistra per via Ca’ Perse che sempre diritti conduce alle trote sportive del lago Berico e invece svoltando a destra passa davanti all’ingresso dell’Oasi di Casale e prosegue fino al nuovo groviglio autonodale di Vicenza est. Luogo che le due ruote a trazione animale devono evitare come la peste e infatti dopo l’ancona con la Madonna di Monte, prendiamo la traversa a destra e ritorniamo sulla strada di Casale in prossimità del piccolo cimitero. Le edicole funebri del lato meridionale ne costituiscono il muro di cinta. Alcune hanno una piccola finestra e mettono un po’ di confusione: l’impressione è sì quella di un luogo di riposo, ma anche di vacanza. Saliamo il cavalcavia che s’invola sopra l’autostrada. Della vecchia scuola elementare, abbattuta al tempo della costruzione della terza corsia, non è rimasto il minimo indizio. Sarebbe stato bello una piccola installazione, che ne so, un cubo di cristallo con dentro la riproduzione di un’aula con degli arredi originali, la cattedra, la lavagna e una fila di banchi. Magari anche due alunni impagliati. Giù dal cavalcavia, sfrecciamo alla folle velocità dei trentacinque orari accanto alla “Alla Baracca”, dove secondo la mitografia un tempo si cucinava la frittura di pesce tirato su dritto dal Bacchiglione. Siamo a Casaletto e allungando il collo dal parcheggio della trattoria si può vedere la sottostante divinità fluviale che qui si contorce in spire e anse, indecisa se proseguire fino all’incontro con quello scocciatore del Tesina o tornare indietro a Vicenza, sempre lasciata a malincuore. Una ciclabile che portasse dal capoluogo berico fino a Padova correndo sugli argini del Bacchiglione sarebbe un’idea mica male. Verrebbero cicloturisti a frotte da tutta Europa. E i costi non sono certo proibitivi: un rullo compressore, della ghiaia e un minimo di manutenzione prima della bella stagione con spese da ripartirsi tra innumerevoli enti, regione, province, amministrazioni comunali, magistratura alle acque, consorzi fluviali, corpo forestale ecc. ecc. Quindi una cosa che non si farà mai. Allontaniamoci da questi discorsi che potrebbero portare a pericolose derive nostalgiche. “Il lato positivo delle ideologie totalitarie”: segue dibattito e/o tafferugli. Ma noi siamo già scappati avanti ed entriamo nell’abitato di San Pietro Intrigogna, paesino di quattro case e una chiesetta incuneato tra il Bacchiglione e il Tesina. Mezza dimora nobiliare e mezza casa colonica, villa Rubini - così ci ha indicato una nonnina di passaggio- se ne sta in posizione discosta. Il corpo centrale è chiuso e disabitato; come accade in tutti i complessi storici dove resta funzionante solo la parte agricola, i residenti, proprietari o affittuari occupano gli edifici minori, le ali e le barchesse dove il riscaldamento e la manutenzione non costano miliardi. Spariti i nobili latifondisti oggi è il tempo dei rampanti immobiliaristi. Prima o poi si affacceranno da queste parti con piani di lottizzazione e urbanizzazione come sta già avvenendo a Casale. Godiamoci allora questo scampolo di archittettura e natura, ancora risparmiato da villette a schiera, bifamiliari e condomini. Torniamo indietro e alla rotatoria prendiamo a sinistra per strada Ponti di Debba. Che sono due, ma solo quello con la travatura di ferro merita la piena titolarità. In auto è difficile, ma in bici si può leggere la targa “Fonderia T. Geisler Vicenza 1885”. Se ci fosse qui l’amico Poldo, profondo conoscitore della storia economica di Vicenza, ci racconterebbe la storia della fonderia Geisler fino a oggi, che poi è Beltrame o Valbruna. Quanto a me, ignoro perfino il presente e ho il dubbio che Beltrame e Valbruna siano la stessa cosa. Oppure sono due rami della medesima famiglia, boh. In compenso so a memoria un lied di Schubert, la “Gute Nacht”. Ma dubito possa interessarvi. Sbucati sulla Riviera Berica, giriamo a sinistra e la teniamo percorrendo in relax il tratto di ciclabile che, spenta davanti alla base americana, riprende sull’altro lato ma più all’interno. Un tempo, quando -si dice- c’erano le atomiche, la base “Pluto” era sorvegliatissima e in perenne stato di massima allerta. Oggi pare in disarmo e sguarnita: alla porta carraia si vede spesso del personale di qualche vigilanza privata e anche i pacifisti, che un tempo accorrevano numerosi a presidiare l’entrata si sono ridotti di numero. Sono rimasti in due, sempre i soliti, a giorni fissi e con un cartello a testa. Anche loro paiono poco convinti: probabilmente nei bunker dentro la collina ora gli americani ci tengono in fresco le birre. Arrivati al termine della ciclabile, e cioè a Costozza, pigliamo a sinistra e incrociando la Riviera superiamo il ponticello sul canale Bisatto in direzione di Montegalda. Finalmente gli orizzonti si schiudono, i colli si allontanano e le terre si distendono invitando alla fuga. Il cubo di cemento sul bordo del campo pare una scultura minimalista, di più, una forma ideale piovuta giù dall’iper-uranio. Raggiunto il complesso di villa Spiller, rimaneggiato fino all’irriconoscibile e scampati all’assalto di un simpatico cagnolino sbucato dall’inferno per causare il peggior danno alle caviglie dei ciclisti, giriamo il manubrio verso casa. Chi non soffre di lombaggine potrebbe cambiare strada, salendo sul primo argine della destra e percorrendolo fino a Secula, cioè la strada che da Longare porta a Vancimuglio. Ma il viottolo è così malmesso che pare di andare a cavallo di un martello pneumatico. Noi si preferisce tornare per la medesima strada fino al ponticello sul Bisatto e quindi, prima del ponte prendere a destra per via delle Marzemine. La si segue fedelmente all’interno, anzi sul retro di una zona residenziale e infine, dopo una curva secca a sinistra si arriva su uno pittoresco ponticello in legno che porta sulla Riviera Berica e quindi sulla pista ciclabile. Di qui fino a Vicenza si può attivare il pilota automatico e dedicarsi ai pensieri più vari. Ad esempio se la revisione della macchina non sia scaduta; se è il caso dopo ventidue anni di farsi vedere da un dentista; su cosa abbiamo detto o fatto di così tremendo a un amico che ci ha tolto il saluto; se quello che ci ha tolto il saluto era veramente il nostro amico oppure un sosia; se l’acqua del rubinetto è migliore di quella nei bottiglioni di plastica; se l’amico o il suo sosia beve l’acqua del rubinetto o quella nella plastica; se l’amico non ci saluta più per gli effetti nocivi dell’una o dell’altra. Non spaventatevi, questo è solo un esempio, e anche dei migliori. Un utile accorgimento per prevenire la formazione dei pensieri è dedicarsi alla lettura dei cartelloni pubblicitari che fortunatamente sulle nostre strade non mancano, anzi ne sono elemento costituente. E intanto, vedete, parlando e parlando abbiamo passato incolumi la vista straziante della Rotonda e siamo già in borgo Berga, alle porte della città, davanti alla spianata del Cotorossi. Unica sopravvissuta alle ruspe è rimasta la ciminiera. Perso il cotonificio, Vicenza ha perduto un pezzetto della sua fisionomia e della sua storia, e non solo industriale. Pur nell’abbandono e nella rovina patiti negli ultimi 25 anni, dopo la chiusura definitiva, il Cotorossi ha continuato a essere un luogo speciale, parte dell’orizzonte mentale e affettivo di generazioni di vicentini. Non ho conforti statistici, ma credo non sia esagerato affermare che almeno una famiglia  su cinque conti almeno un parente che ha lavorato al cotonificio. Mia nonna ad esempio. Vi lavorò tra le due guerre. Quando rientrava in casa il marito e i figli le facevano trovare una sedia subito accanto alla porta. Non diceva nulla, si sedeva e ripigliava fiato per una mezz’ora. Poi preparava la cena. Ma era a suo modo una privilegiata, abitava a Santa Caterina, due passi. Gli altri, per tornare a casa, macinavano chilometri a piedi o in bicicletta. Collocare accanto alla ciminiera una copia della statua del Tessitore di Schio sarebbe un gesto carino per conservare la memoria della fabbrica e dei suoi lavoratori, i principali protagonisti dell’industrializzazione di Vicenza. Al prossimo giretto.  

 
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