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Saluti & Bici - Giretto 9 - "Lo struzzo di Sant'Agostino"

si ringraziano l'autore di testi e foto  Alberto Graziani e il Giornale di Vicenza per la gentile concessione del materiale

Oggi si va verso ovest e partiamo da piazza San Lorenzo. Chi storce il naso rispetto la recente risistemata, si sforzi di ricordare la precedente versione: un caranvanserraglio di bici, motorini e auto che durante le stagioni elettorali si riempiva di orribili pannellature di metallo. Dopo tanta francescana sopportazione, la chiesa e lo splendido portale gotico hanno trovato il giusto contorno; prima era la vista di un trumeau su un pavimento di linoleum. Passati sotto il ponte delle Belle, continuiamo per contrà del Quartiere, dove sulla sinistra svetta il poco riuscito condominio di Carlo Scarpa. Di qui guadagniamo corso San Felice e rotoliamo fino alla birreria Sartéa, prendendo a sinistra per via D’Annunzio. La passerella in fondo alla strada è l’unico collegamento pedonale tra il quartiere dei Ferrovieri e il resto della città ed è la continuazione ideale di quel mezzo cardo e mezzo decumano formato famiglia che è viale S. Agostino. Altri collegamenti sono l’hymalayano cavalcaferrovia di via Ferretto de’ Ferretti e all’estremo oriente il congestionato accesso da viale Fusinato. Stretto d’assedio dai colli berici da una parte, dal Retrone e dalla ferrovia dall’altra, il quartiere dei Ferrovieri è sempre stato una realtà isolata dal contesto urbano, almeno fino alla grande zonizzazione industriale e la costruzione del complesso fieristico. Anche oggi, pur massacrato dal traffico di attraversamento, ha conservato i fieri tratti dell’isolano. Ai Ferrovieri la vita si svolge altrove, nel segreto delle viuzze interne, negli orticelli minuziosamente coltivati, nelle fitte traverse che si staccano dal viale. E proprio queste andiamo a esplorare scendendo dalla scivolosa passerella e prendendo a destra per via Alessandro Rossi. Il fondo è chiuso da un pregevole cancello in ferro oltre il quale si avvia un viale alberato. Qualcuno, forse un ex-ecologista, ha abbandonato sul muretto un paio di poderose batterie da camion e l’acido comincia a corrodere il cemento. E’ l’ingresso dell’ex-fabbrica Lanerossi, dismessa da decenni. Un’area di quasi ottantamila metri quadri con palazzine, capannoni e tanto, troppo verde, per non far gola agli immobiliaristi. La cronaca recente l’ha portata alla ribalta in seguito a fatti di occupazione-sgombero-rioccupazione e risgombero. Dopo la vicenda del centro sociale “Ya Basta”, demolito con spargimento di sale, l’amministrazione comunale sembra aver esaurito il cospicuo capitolo sulle politiche giovanili. Non che le istituzioni debbano consegnare a dei barbuti liceali vetero-marxisti degli spazi in autogestione, per carità (figurarsi poi, con un sindaco beccato all’inaugurazione della sede cittadina di un movimento di estrema destra): ma almeno proporre e predisporre un luogo in cogestione dove i ragazzi possano trovarsi, ascoltare musica, ballare e stare insieme fuori dal solito circuito commerciale. Insomma la distanza da colmare è tra chi considera il centro sociale un falansterio extragiudiziale e chi invece una centrale del crimine, tenendo possibilmente le ideologie fuori sul pianerottolo. E’ che siamo un Paese vecchio, superficiale e smemorato: dopo quarant’anni belli e grassocci di Democrazia Cristiana siamo ancora lì alla sbarra tra destra e sinistra, centro-destra e centro-sinistra, fascisti e comunisti, con i moderati sì al centro, ma del cerchio di Salomone. Che barba. Certo, il bipolarismo si è fatto, ma all’italiana: quaranta partiti e partitini da un lato e quaranta partiti e partitini dall’altro. E non dite che, tanto, uno o l’altro al governo è sempre la stessa minestra. Sareste solo degli squallidi qualunquisti. Proposta prima di riprendere il giretto: “La necessità storica di rivalutare il qualunquismo”. Segue dibattito, uno qualunque. Da via Rossi giriamo a sinistra per via Masotto e attraversiamo un’area verde che confina con i ruggini capannoni dell’ex-Lanerossi. Di qui, dopo i giardini pubblici, zig-zaghiamo per via Granezza, via Sasso e via Randaccio, sbucando in via dell’Arsenale. Che merita almeno una sbirciatina, soprattutto l’area di deposito e movimentazione dei container. Si respira quella vaga promessa sconfinata tipica di ogni paesaggio portuale, anche se al momento le merci viaggiano più libere degli uomini. Dopo aver percorso un tratto dell’accidentata ciclopista lungo viale S. Agostino, ci addentriamo tremebondi per viale del Lavoro. Siamo nel cuore industriale della città e, strano a dirsi, c’è più silenzio e meno traffico che in centro storico. Forse sono all’opera nuove generazioni di macchinari sordomuti, forse non è l’ora del carico-scarico e dell’uscita dei lavoratori, comunque pare di essere nella penombra ovattata di un bosco. Altro che gli infernali quartieri residenziali. Solo i nomi delle vie fanno impressione: viale della Siderurgia, della Chimica, della Scienza, la Meccanica, il Progresso, la Fisica, l’Elettronica, l’Artigianato, l’Industria, il Commercio, la Ceramica, l’Oreficeria. Percorrendoli, ci si sente sempre più in colpa, lì sulla bicicletta a non far niente. E viale del Tempo Libero non esiste. Fischiettando per passare inosservati, pedaliamo sull’anello di viale dell’Economia dove merita qualche istante di sosta la nuova sede della Dainese. E’ un edificio scuro e di forma cubica, che richiama alla mente la Ka’ba (che guarda un po’, in arabo vuol dire cubo), l’edifico al centro della grande moschea della Mecca. Non so quanto gli islamofobi possano essere contenti, ma la costruzione dell’edificio è attribuita al patriarca Abramo e questo approssima ebrei, cristiani e musulmani a cugini di primo grado. Poi non è detto che tra cugini siano sempre rose e viole, epperò, soprattutto nell’attuale clima di dure contrapposizioni, la Ka’ba (quella della Mecca, non quella di Dainese) è un invito a riflettere e riconsiderare le questioni. Riguadagnato viale S. Agostino (Dottore della Chiesa, scuro di pelle e nato ad Algeri: oh, non lo facciamo mica apposta), passiamo il padre Retrone sul ponte di ferro e proseguiamo sempre diritti, lasciando sulla sinistra la zona industriale di Arcugnano e la storica trattoria “Nogarazza”. Adolfo Giuriato, poeta vicentino che ai più oggi suona soltanto come riferimento toponomastico, le dedicò la composizione “La Nogarazza a S.Agostino”,  parte della piccola raccolta “Liriche Santagostiniane”. Attacca così: Sotto un cielo clemente e luminoso,-tra il fiume lento e il riso chiacchierino,-apre la valle sua Sant’Agostino,-valle diletta al vomere operoso. Arrivati alla terrifica rampa che decolla verso Valmarana, ci buttiamo a sinistra per la strada delle Acque e subito dopo a destra per via Matteotti, seguendo l’indicazione per la pizzeria Tramontana. La strada corre nel fondo di una valletta chiusa con case rare e generosi orti coltivati a crocifere. Ognuno qui è padrone del suo piccolo sogno arcadico, fatto di muretti a secco e sculture naives che riescono a rapire anche le anime più intossicate. Dopo la pizzeria, la strada tende l’inganno di una dolce salita che dopo qualche metro si fa inerpicante e brutale. Poco male, si smonta dalla bici e si procede a piedi fino all’anconetta della Madonna di Monte Berico. La statua è all’interno di un nicchia protetta da un infisso in alluminio anodizzato. Insomma, basta il pensiero. Sotto, una targa riporta insieme al nome dei devoti, la data della costruzione e delle opere successive, 1902, 1955 e 2000. Ci fermiamo qualche minuto, sospesi a metà tra un’Ave Maria e il superbo paesaggio di campi e colline che precipita verso il caos della pianura urabanizzata. E’ tempo di tornare. La discesa ci porta a sfiorare la follia dei 50 orari e ricominciamo a pedalare con soddisfazione dopo aver divorato a sbafo un abbandondante tratto in piano. Poco prima dell’incrocio con strada delle Acque, qualcosa di insolito attira la nostra attenzione: è un recinto e dentro vi è una specie di enorme tacchino nero che se ne va nervosamente da un capo all’altro. Uno struzzo. Ora, io non credo agli oroscopi, alla reincarnazione, ai déjà vu, agli alieni e soprattutto agli animali totemici. Ma credete, con quello struzzo c’è stato un corto circuito empatico, un’attrazione mistica, un processo identitario. Una folgorante e ipnotica intesa tra bipedi. L’occhio dello struzzo è geologico, un pozzo scuro dove scintillano sul fondo disastri olocenici e fenomeni quaternari. Ti scruta dentro come una sonda endoscopica. So che in qualche trattoria servono le sue carni sotto forma di bistecche o prosciutto: dopo averlo guardato negli occhi, credo che mangerei più volentieri un dobermann. Arrivati all’incrocio con strada delle Acque, prendiamo a destra fino ai vecchi stabilimenti della Fonte S. Agostino dove nella Belle Epoque e forse anche prima i signori della città si recavano in carrozza a passare le acque. Se avessi la stoffa dell’imprenditore e del capitale a disposizione mi butterei a capofitto nel recupero della Fonte.
Quello delle acque minerali è un business sicuro e redditizio e poi le marche con i nomi dei Santi (San Pellegrino, San Benedetto ecc.) hanno un qualcosa in più nella (parola in questo caso azzeccatissima) fidelizzazione dei consumatori. Ho già in mente anche l’etichetta con un’immagine di Sant’Agostino e il fanciullo con la conchiglia. Si racconta, infatti, che mentre passeggiava lungo la riva del mare meditando sul mistero della Trinità di Dio, incontrò un bambino che con una conchiglia versava l'acqua in una piccola buca. Agostino gli chiese che cosa faceva e quegli rispose: -Voglio versare tutta l’acqua del mare. Come è possibile - disse il santo - fare ciò se il mare è così grande e la buca così piccola? Eppure, - rispose il bambino, - è più facile che il mare entri in questa buca che il mistero di Dio nel tuo intelletto. Questa è senza dubbio la parte più letteraria e gradevole dell’affare. Il resto, cioè tutto, contempla la ricerca dell’attuale proprietà, un accordo di concessione, analisi chimiche, fisiche e batteriologiche, macchinari per l’imbottigliamento, depositi di stoccaggio, piani di marketing e distribuzione. Oppure accontentarsi di una produzione di nicchia, rigorosamente in vetro, un migliaio di bottiglie al giorno, dieci euro l’una.  Se un giorno mi deciso, lo faccio. Ma è più facile che il mare entri nella buca. Torniamo sui nostri passi ripercorrendo la ciclabile accanto al viale. Appena superata la Badia di Sant’Agostino, prendiamo a destra per via Valdorsa. Ci sarebbe da scrivere a tonnellate sulla trecentesca abbazia dove sostarono Can Grande e forse Dante. E anche sul suo parroco e “salvatore” Monsignor Federico Mistrorigo che la risollevò dall’abbandono e la rovina, battendosi per anni perché S. Agostino e le sue valli fossero messe al riparo dalle esondazioni del Retrone. Via Valdorsa corre parallela all’asfalto della Serenissima, censurata da una cortina di pannelli antirumore. Arrivati in fondo si piglia a sinistra il sottopasso e si prosegue lungo via Ponte Quarelo fino a riattraversare il Retrone. Appena superato il ponticello, ci si butta a destra lungo l’argine  che abbastanza comodamente porta nel cuore del parco fluviale e più in là alle spalle delle storiche residenze dei ferrovieri, trenini di case che sembrano prossimi a partire. E sul fischio di un treno vero che arriva d’oltrefiume ci salutiamo al prossimo, e ultimo, giretto.
 

 
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