Home arrow Rassegna stampa arrow 2009 arrow Lettere al Direttore, martedì 20 gennaio 2009
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I CICLISTI MULTATI, LE REGOLE, GLI ESEMPI DALL’ESTERO E CONSIDERAZIONI IN LIBERTÀ

Da "Il Giornale di Vicenza, martedì 20 gennaio 2009 pagina 62

«Il senso vietato vale anche per le biciclette»

L’episodio dei ciclisti multati in Levà degli Angeli per una ben chiara infrazione alle norme della circolazione stradale, al di là delle comiche polemichette provocate dal risentimento per l’alleggerimento del portafoglio, potrebbe in realtà divenire un fatto di grandissimo rilievo e, oso dire, di portata storica, se esso segnasse l’inizio di un’azione sistematica e coerente, volta a far diventare a poco a poco anche l’Italia un paese più serio e più normale, finalmente deciso a uscire dal vizio secolare, già denunciato fin dai tempi del Poeta (“le leggi son, ma chi pon mano a elle ?”), di fare leggi a migliaia e di non farle poi rispettare. Se invece, come pare, l’episodio in questione rimane solo un’isolata, estemporanea punzecchiatura, be’, allora sarà stato una baggianata di più, come tante altre.
Abitando nella zona di Parco Città, mi è capitato almeno un paio di volte di osservare i vigili urbani intenti a multare le automobili in sosta vietata, mentre sotto il loro naso passavano imperterriti uno dopo l’altro a diecine ciclisti in senso vietato, e nessuno dei vigili li degnava di uno sguardo. La medesima osservazione può essere fatta, credo, dalla mattina alla sera di tutti i giorni in tutte le vie a senso unico della città, e a me capita di pensare che, se fosse inflitta una multa di due euro a ognuno di quei ciclisti - e se ci fossero abbastanza vigili per applicarla - il Comune avrebbe di che rimpinguare sostanziosamente le sue casse (probabilmente, pur di continuare a usare quelle che considerano “scorciatoie”, i due euro i ciclisti li pagherebbero tutte le volte senza fare troppe storie).
Molti ciclisti, naturalmente, non hanno nemmeno mai sentito parlare di “senso vietato” (vedo spesso anche qualche automobilista, con tanto di patente, che non ne ha manifestamente mai sentito parlare), ma i più, sento dire, sono convinti e sostengono che “ il senso vietato è solo per le macchine, non per le biciclette”. Questo naturalmente non è affatto vero, perché le biciclette, per il fatto stesso di muoversi sulla sede stradale, sono veicoli come tutti gli altri, e ad esse perciò si applicano le medesime regole.
È possibile che le autorità considerino che i ciclisti sono “il popolo” e che quindi per essi la legge deve essere “più uguale”, ma uno degli effetti di questa politica è che, circolando in macchina su strade a senso unico - quindi strette, magari in curva - ci si trovano davanti ciclisti contro mano, spesso tutti sulla loro sinistra e magari anche “senza mani”. Del resto, ancora più uguale mi sembra essere la legge per quei novantanove ciclisti ogni cento che circolano nell’oscurità senza il minimo fanale e/o catarifrangente: un sistema completo di illuminazione a pile per biciclette, nei negozi dei cinesi costa cinque-sei euro, ma evidentemente quei figli del popolo preferiscono rischiare di essere investiti piuttosto che, immagino, sottrarre risorse ai telefonini.
Io personalmente sono vissuto per 42 anni all’estero, principalmente in Lussemburgo e in Giappone, e in questi paesi ho circolato moltissimo sia in macchina che in bicicletta. In tutti i paesi tutti gli utenti della strada, anche i bambini di prima elementare che vengono già istruiti in materia a scuola, conoscono le regole e sono ben contenti di osservarle, perché sanno bene che ciò è nell’interesse di tutti (ma qualche italiano residente in loco dice - naturalmente ! - che quella è “irreggimentazione”).
Rimpatriato (da coglione) in Italia quattro anni fa, girando per le strade di qui in macchina ma molto più in bicicletta, io continuo a osservare le regole come se fossi ancora in quei paesi (rispetto i semafori, le priorità, i sensi unici, di sera metto in funzione un luminoso fanale), benché sia consapevole che, così facendo, qui mi copro di ridicolo: chissà, forse il lungo soggiorno all’estero mi ha fatto diventare, secondo una frase molto usata una volta, “un italiano non più degno di questo nome”.
Non c’è dubbio che, agli occhi di chi arriva in Italia dai paesi di cui parlavo (da tutti, in sostanza), lo spettacolo di tutta questa indisciplina stradale - insieme con le strade sconquassate, i marciapiedi sconnessi o inesistenti (così, con le macchine parcheggiate ai lati, i pedoni devono camminare in mezzo al traffico, come nei villaggi delle savane africane), e un gran numero di altre simili caratteristiche esclusive, l’Italia ha molto più l’aspetto di un paese del terzo (o magari decimo o trentesimo) mondo che di un paese di avanguardia.
A pensarci bene, tuttavia, credo che sia giustificato affermare che la sciatteria del comportamento dei ciclisti è probabilmente nient’altro che una delle innumerevoli manifestazioni di una sciatteria e incuria generalizzata, in primo luogo di quella dei reggitori della cosa pubblica. Francamente, io non ho mai capito come sia possibile in una città di pianura, nella quale vengono ogni giorno sforati i limiti di tollerabilità delle polveri sottili, e dove le persone che usano quotidianamente la bicicletta sono migliaia, le autorità facciano così poco, o nulla del tutto, per i ciclisti, abbandonandoli a loro stessi e lasciandoli, appunto, allo stato brado.
Nei paesi esteri dove sono vissuto c’era una grande disponibilità di percorsi protetti per i ciclisti, sotto forma di corsie apposite sui marciapiedi adeguatamente larghi lungo le principali arterie (così in Giappone), o di una articolata rete di piste ciclabili “vere”. In particolare, io ho totalizzato un gran numero di chilometri in bici, da solo o con amici, sulle piste in Germania fino a una profondità di una ventina di km lungo la fascia di confine con il Lussemburgo. Ebbene, in Germania, o almeno in quella parte di Germania, si può andare per piste ciclabili dappertutto, le piste si snodano dovunque è possibile, di preferenza, sulle rive dei fiumi (ovviamente più pianeggianti rispetto all’area circostante), sono sempre completamente separate, con itinerari propri, dalle strade carrozzabili e, quando incrociano queste ultime, sono fatte passare sopra o sotto.
Quanto poi al Giappone, tutte le stazioni, grandi e piccole, della fittissima rete ferroviaria hanno vasti parcheggi recintati e attrezzati per le biciclette: le persone si recano appunto a centinaia alle stazioni in bici per prendere i loro treni. Insomma, in quei paesi uno in bicicletta poteva - può - sentirsi al sicuro e godersi il paesaggio urbano o rurale (nel Lussemburgo attraverso bellissime foreste) in santa pace.
Non è certamente così a Vicenza, e molto verisimilmente, in tutto il resto d’Italia. Qui il ciclista - dico cose ovvie, ben note a tutti - è in pericolo mortale ad ogni metro della sua strada, e può soltanto muoversi in mezzo a tutte le macchine, sperando ad ogni istante nella sua buona stella. Non solo le piste ciclabili il ciclista se le può soltanto sognare, ma gli automobilisti, sempre pieni di fretta e ben decisi a non subire mai il supremo disdoro di rallentare dietro a una bicicletta, fanno intorno a lui lo slalom sfiorandolo di millimetri.
Oh sì, ci sono qua e là dei piccoli tratti di piste, quasi sempre a fianco di carrozzabili (con una o due eccezioni sull’antica sede della “vaca mora”), mal tenute, spesso usate come area di parcheggio per le macchine ecc. La loro esiguità e discontinuità fa nascere il sospetto che si sia voluto semplicemente “fare la mossa”, produrre dei campioni, per far vedere che anche l’Italia, se volesse, saprebbe fare come gli altri paesi. Ma, appunto, l’Italia non vuole fare come gli altri.
Che bisogno ha l’Italia di dedicare risorse a una rete di piste ciclabili, devono dirsi i reggitori. Come i piloti dell’Alitalia, secondo ciò che la radio e la televisione ci hanno a lungo ripetuto, sono - per definizione - i migliori del mondo, così anche gli automobilisti italiani sono, necessariamente, i migliori, i più abili a destreggiarsi a gimcana da un ciclista all’altro. E poi, anche se dovesse qualche volta capitare che l’audace acrobazia non riesce, e il ciclista finisce ammazzato, niente paura: tanto, da quando anche in Italia è stata introdotta (decenni dopo il resto del mondo) l’assicurazione RCA obbligatoria, non sono tutti assicurati?
Insomma, come potrebbe l’Italia abbassarsi a fare come gli altri paesi? Se gli italiani sono, come credono, i più bravi, i più intelligenti e i più furbi del mondo, non devono certamente imparare niente da nessuno, e caso mai, appunto, sono gli altri che devono copiare noi.
Giovanni Cuman
Vicenza

 
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