Saluti & Bici - Giretto 2 - "Insegnanti di sostegno"

si ringraziano l'autore di testi e foto  Alberto Graziani e il Giornale di Vicenza per la gentile concessione del materiale

Il giretto di oggi, per usare una parola orribile, è limitrofo al precedente, ma poco importa a chi è giunto a leggerci solo ora e, con buone probabilità anche chi ha letto del primo avrà già dimenticato quasi tutto. Meglio così, gli scrittori si dividono in due categorie: chi pensa che ciò che scrive si stampi a lettere di fuoco nella mente dei lettori e chi si augura di cuore di avere un pubblico  di smemorati. In sintesi, i boriosi e i pudìchi. Se poi superbia e modestia, ritegno e arroganza siano facce della stessa medaglia, non sta a me dirlo: io devo solo pedalare. Viale Astichello è sempre stato il parente povero di viale Trieste: quello conduce diritti al teatro Olimpico, dà l’affaccio al cimitero monumentale e verso est diventa la Postumia; questo, più dimesso e incline alla servitù conduce dalle parti del seminario, scorre alle spalle del cimitero e sfocia nelle lande di Saviabona, borgo extracittadino un tempo nominato “La Cayenna”. Si tende a dimenticare però che lungo la via “insistono”, come si usa dire, più istituti scolastici che ad Harvard. Alla storica scuola professionale di San Gaetano, si sono aggiunti i geometri del Canova, i sociali del Montagna, gli scientifici del Quadri, nonché strutture sportive e nuovi palazzi residenziali. Insomma viale Astichello non è più una porta di servizio, anche se forse molti ne rimpiangono la tranquillità di un tempo. Sulla strada per Cavazzale le macchine fischiano al solito come proiettili d’artiglieria e si procede più preoccupati di finire in ortopedia che della colazione bloccata nel piloro. Arrivati alla rotonda però, la salvezza è la recente pista ciclabile che si prende sulla destra e che marcia parallela alla ferrovia. Lontani dal traffico e dai motori diesel multijet, che anche se pronunciati alla brasiliana fanno comunque una puzza insopportabile, la mente si apre a pensieri meno cupi. C’è spazio perfino per il perdono dell’ex-moglie che ci ha abbandonato. Ma spazio non ancora sufficiente. E sì che l’ho sempre amata e onorata, trattata con ogni riguardo, messa al centro del mondo maschile che solo noi uomini sappiamo essere così ipocrita e, soprattutto, policentrico. Eppure niente, non ha funzionato. Forse esistono persone che sono esasperate dal rispetto. Introducendo non so più quale romanzo, Dostoevskij sentenziò che le donne hanno un’istintiva sete di servilismo. Se è riuscito a scrivere questo, beato lui. Forse per essere serviti bisogna essere dei geni, e i geni si sa, non vedono aldilà di un naso che sempre coincide con l’amor proprio. Io amo più gli altri che me stesso: è una consolazione, giacché aspirare alla genialità non è permesso, ma alla santità non è vietato.
Conclusa il defilé delle casettine a schiera che sembrano veri e propri attaccapanni esistenziali, si giunge al passaggio a livello del paese. Qui si piega a sinistra e si segue via Chiesa in direzione di Dueville incontrando di nuovo le amorevoli attenzioni delle auto. Non so se qualcuno ha già individuato e analizzato il processo per cui la stessa persona da automobilista tenta di azzannare i cicilisti e da ciclista prenderebbe a manubriate gli automobilisti. La strana mutazione avviene nel tempo di scendere dalla macchina e inforcare la bici e viceversa. Una specie di rimozione fulminea: cambio di mezzo uguale a cambio di personalità. Comunque si pedala e si procede innanzi a dispetto di tutto e di tutti, perfino della bella giornata, anzi splendida e come tale irritante per temperamenti umorali e bastiancontari che hanno deciso a malincuore di godersela. L’ultima volta che sono stato a Cavazzale fu per un colloquio con il preside della locale scuola media in vista di un posto di insegnante supplente di sostegno. Io non so cosa ho fatto nelle vite precedenti, ma di sicuro devo averne combinate di grosse e imperdonabili perché, giuro che al mondo forse non c’è punizione peggiore che trovarsi nei panni di un insegnante di sostegno. Nella definizione - di per se terribile - già si affaccia la natura terrificante della funzione e dell’incarico da svolgere. Figura professionale di squisita ideazione italica all’indomani dell’abolizione delle classi differenziali, il prof di sostegno pratica il sostenimento, anzi molto spesso il puntellamento di ragazzi che: a) sono del tutto normali, ma rompono talmente le balle in classe che gli altri insegnanti, per avere un po’ di pace, chiedono il sostegno; b) sono del tutto ingestibili per malanni psicofisici che richiederebbero assistenza, cure e attenzioni costanti da parte di specialisti clinici. Nel caso a) , che è una pacchia ma è piuttosto raro, l’insegnante di sostegno se la cava facendo un po’ da istitutore e un po’ da badante. Nel caso b) lo stampellatore, che spesso ha una laurea in ingegneria meccanica, musicologia o lettere moderne deve improvvisarsi filosofo, psicologo, psicoterapeuta, anestesista-rianimatore, pompiere, guardia carceraria e karatèca, in una progressione geometrica che conduce al martirio.
La mia prima e ultima esperienza nel campo del sostegno sono stati tre mesi con un ragazzino frenopatico e manesco. Fortuna che ero fresco di laurea e soprattutto agile di membra. Il primo mese ho imparato a schivare gli sputi, il secondo i colpi bassi, il terzo a non rispondere agli insulti e poi nell’ultimo ci siamo dannatamente affezionati. Passavamo il tempo in un piccolo laboratorio a costruire bastoni luminosi, l’unica cosa che gli piaceva e lo faceva stare buono. A dire il vero, anche me. La domenica andavo in un bosco e caricavo il bagagliaio di rami secchi. Poi in laboratorio li pulivamo con la carta vetrata, fissavamo una lampadina sulla punta e una pila sull’impugnatura e avevamo il bastone luminoso. Ne abbiamo fatti almeno una quarantina, gli ultimi modelli perfino con l’interruttore. Dentro di me, cominciavo a pensare di aver trovato finalmente la mia strada. L’avevo anche inserito nel curriculum professionale, poi l’ho tolto vista la solerzia con cui i destinatari non mi rispondevano. In ogni caso, tornando dal trapassato remoto all’imperfetto, al preside di Cavazzale ho detto che no, che non mi ritenevo all’altezza. In breve la richiesta era di fare da insegnante di sostegno a un alunno che non doveva sapere di essere oggetto del sostegno e tantomeno i suoi compagni. Un sostegno metafisico, insomma. Funzionava che io, presentato inizialmente come un insegnante affiancato, avrei trascorso in media quattro ore al giorno nella classe cercando il più possibile di assomigliare a un calorifero. Nel caso l’alunno avesse dato segni d’incandescenza sarei intervenuto a placarlo, ma ovviamente senza dichiarare la reale natura del mio incarico. Un piano veramente diabolico, ma con un lieve difetto: il ragazzo in questione non faceva ancora parte della classe, ma vi sarebbe arrivato da un altro istituto in concomitanza con l’insegnante-calorifero. Solo una scolaresca di insaccati non avrebbe mangiato subito la foglia insieme a tutto l’albero. A parte la radicale ipocrisia dell’intera operazione, c’è anche da considerare l’imbarazzante ridicolaggine dell’aspetto ambientale: come avrebbero potuto lavorare in tranquillità allievi e insegnanti  con un convitato di pietra a latere della cattedra? Scuola media italiana? Credo quia absurdum.
Chiedo scusa per la lunga divagazione, si stava pedalando lungo via Chiesa dove versa in condizioni pietose la settecentesca villa Querini-Dalle Ore. Il fatto che in Italia si concentri il 90 % del patrimonio artistico mondiale ci rende forse più indolenti che solerti: che vuoi che sia una villa in meno. All’incrocio con via Parmesana si va a sinistra verso Vigardolo e un centinaio di metri dopo l’attraversamento ferroviario della Vicenza-Schio si gira a destra per l’agreste via Capitello, direzione Povolaro. La rustica nobiltà del villino Rossi da Schio dà il benvenuto in paese insieme alla non timida facciata della chiesa di San Sebastiano. Prendendo a destra verso la piazza del Redentore, non si può non notare l’obelisco con il Cristo Trionfatore e soprattutto la croce, sproporzionata in tutto, dimensioni, materiale e colore. Solo una volta sotto, ci si accorge che non è di marmo ma di plastica o vetro e che dunque, con buona probabilità ospita delle lampade al neon. Se così fosse sarebbe un efficace esempio di utilità sociale dell’arte, dove s’incontrano devozione e illuminazione
pubbliche. Sono rimasto e vi faccio rimanere con il dubbio. Certo, avrei potuto fermare un passante e chiedere, solo che ormai tutti i passanti sono motorizzati e incapaci di intendere la domanda e rispondere sfrecciando a cinquanta all’ora. Di passanti a piedi, poi ne esistono solo rarissimi esemplari e per di più guardinghi come portavalori. Basta fargli un cenno o avvicinarsi che cominciano a correre. Ma bisogna capire: se fossi un passante di Povolaro e mi fermasse un tale in bicicletta chiedendomi se la croce del Redentore si illumina oppure no, come minimo penserei che è solo una scusa per narcotizzarmi e svaligiare l’appartamento. Tenendo l’obelisco sulla sinistra, si imbocca via Cavour, si arranca un pochino sul cavalcavia della Valdastico e con l’aria tra i capelli si scende lungo via Dindarello, che mette allegria solo a leggerne la targa. Dopo circa un chilometro si arriva a uno stop. Di fronte c’è l’Astico e andando a sinistra si attraversa il ponte e si arriva a Lupia. Noi invece si segue la stradina che scappa via a destra e sempre col dindarello sulla spalla (non so cosa sia e non voglio scoprirlo, mi piace immaginare che sia un uccellino buffo e curioso, abile fischiatore di arie d’opera) passiamo davanti alle diroccate Latterie Sociali. Più avanti, dietro mura gelose scorrono le sagome di villa Garbinati e villa Dal Toso Cadore, ambedue di origini cinquecentesche e rimaneggiate nel corso del Seicento. Lesene ioniche nelle prima, loggiato centrale nella seconda: Oliviero Toscani chieda scusa ai geometri, anche nel XVII secolo si costruiva in allegria ognuno come gli pare. Abbandonata Lupiola si riscavalca l’autostrada e tenendo sempre la destra si dovrebbe arrivare sani e salvi a Vigardolo. Volendo uno si potrebbe orientare con i campanili dei paesi, osservando la posizione del sole, le tracce di umidità sui tronchi degli alberi o le ombre. Quanto a me ho frequentato i boy-scout giusto il tempo di imparare a come affettarsi un piede con la scure. A Vigardolo si percorre la centrale via San Floriano che più avanti diventa via Vigardoletto. Ammirata la facciata nord di villa Valmarana Bressan, decisamente palladiana mentre quella a sud disseminata di finestre lascia un poco perplessi, si percorre un tratto della già nota via Parmesana buttandosi ad un certo punto ortogonali a sinistra sulla ciclabile in direzione di Cavazzale. Dalle parti della scuola media, l’istinto del ciclista affamato dovrebbe condurre ad uno dei più tortuosi sottopassi ferroviari mai concepiti e realizzati, una piccola replica del circuito di Montecarlo Chi non ha sulla bici un clacson bitonale per avvertire del proprio arrivo, è meglio che scenda e lo percorra a piedi. Giunti al centro di Cavazzale si procede verso Vicenza lungo via Zanella, lungo la quale si affaccia l’omonima villa che il sacerdote-poeta progettò e fece costruire nel 1878. Una visita s’impone, più circospetta che rapida e più rapida che circospetta giacché entriamo abusivi da un buco della recinzione. Sotto il frontone triangolare il motto “Datur hora quieti”, che senza grosse pretese scientifiche potremmo tradurre con “asséme stare”. Il colore delle imposte, tra l’indaco e il celeste, ha qualcosa di magico e sospeso. Un’aria fossile e romantica avvolge il giardino arruffato e quasi con paura si inciampa nel busto di Giacomo Zanella accanto a un tronco ricoperto d’edera. “Ma lei cosa ci fa qui - verrebbe da dirgli -dovrebbe stare in piazza San Lorenzo!”. Magari per sentirsi rispondere: “Eh, caro lei, da quando mi hanno messo davanti quei tavolini del bar, chi dorme più? Preferisco qui, grazie.” E te credo, bastano un paio di chilometri sull’asfalto bollente della statale 248 e la quiete di villa Zanella è già lo svaporato ricordo di un sogno. Al posto delle colonne d’Ercole, l’ingresso in città è segnato dalla frenetica roulette della Marosticana che vortica incessante smistando ai quattro orizzonti veicoli, uomini e merci. Affrontarla in bicicletta è come andare nella curva degli ultras veronesi con una sciarpina biancorossa. Se ci finge folli, forse si può passarla liscia e infatti al grido di “Alé Vicenza, Alé Vicenza alé, alé, alé”, la muraglia motorizzata si ferma, lasciando che lo psicociclista guadagni l’altra sponda e un domani per il prossimo giretto.