Saluti & Bici - Giretto 7 - "Il figlio della Maestra"

si ringraziano l'autore di testi e foto  Alberto Graziani e il Giornale di Vicenza per la gentile concessione del materiale

Viviamo in tempi strani, c’è poco da dire. Ad esempio gli applausi ai funerali. Il morto non può ringraziare, va da se, eppure la gente batte le mani come a un concerto o a teatro. Si può intendere come uno dei tanti modi, certo il meno elegante, per esorcizzare e allontanare lo scandalo. Credo invece che Sorella Morte subisca gli effetti perversi di una società spettacolarizzata e completamente rivolta all’esterno, ormai incapace di contenere i propri moti interiori. Non già spudoratezza, quanto un processo meccanico di spudoralizzazione. Stessa cosa avviene con Sorella Vita: una volta quando nasceva un bimbo si andava all’anagrafe e si appendeva, ma non sempre, un timido fiocchetto sulla porta di casa giusto per un paio di giorni. Oggi, basta guardarsi intorno, il neonato è trasformato nell’evento unico ed eccezionale. Decine di fiocchi, festoni, striscioni, cicognoni di plastica, proclami al mondo: guardate la foto, perfino i nonni ci si mettono con un cartello appeso in terrazza. Verrebbe benevolmente da rispondere: e chi se ne frega. Ma si corre il rischio di passare per cinici e misantropi. Ma cos’è quest’ansia di comunicare, di far sapere, di esibire, in fin dei conti di costringere gli altri a ficcare il naso negli affari propri? Perché i cartelli stradali e i semafori sono diventati delle bacheche dove sventolano orribili fotocopie di orrende foto di giovani sposi?
Non è il segno di una società profondamente sola e disperata? Ma è tempo di far girare le ruote e cercare le risposte, se ve ne sono, tra una pedalata e l’altra. Lasciamo il centro di Vicenza percorrendo corso Padova. Sarà un giretto di sottopassi e sovrappassi, cavalcavia e cavalcaferrovia, stradine e cimiteri che dovrebbe portarci fino a Camisano. Forse il progettista del sottopasso ferroviario di San Pio X voleva a suo modo rimediare a questo mondo di rapporti sociali impoveriti e sempre più delegati alle lettere degli avvocati. Per questo ha spezzato la rampa in tre svolte cieche a gomito, spinto dall’utopia che dall’impatto frontale pedone-pedone, pedone-ciclista e ciclista-ciclista possano nascere e svilupparsi nuove amicizie e conoscenze, chissà anche nuovi amori. Per ora, incrociandosi nel budello cementizio ci si limita a sguardi lievemente cagneschi, ma non è detto che le cose migliorino. Rifacendo il sottopasso, ad esempio. Scappiamo via dal rombante e pericoloso viale della Pace infilandoci dentro la quieta oasi della Stanga. E’ un pezzetto di città “sui generis”, stretto tra i binari della Milano-Venezia e il muro di cinta della Caserma Ederle. La presenza degli americani, invisibile come uno Stealth nel resto dei cieli cittadini, si manifesta qui nei cartelli bilingue esposti in vari negozi e nell’autosalone stile Kansas City con modelli in tutti i sensi transatlantici. Tex-mex due, Kebab zero. Il manubrio della bici vibra, avverte la presenza di una pista ciclabile come la bacchetta del rabdomante una vena d’acqua sotterranea. Si procede diritti paralleli alla massicciata ferroviaria e, passati sotto al cavalcavia, si sbuca magicamente sulla strada di Ca’ Balbi. Svoltiamo a destra in direzione di Bertesinella e dopo circa mezzo chilometro giriamo a sinistra per strada del Paradiso. Non so se i nomi delle vie hanno il potere di influenzare il carattere di chi vi abita. Forse c’è da augurarsi di no, soprattutto per il bene dei residenti in stradella del Diavolo, alle pendici di Monte Berico. Comunque per i ciclofili è veramente una via paradisiaca perché vi circolano pochissime auto. Dopo la soppressione del passaggio a livello non è più possibile raggiungere Setteca’ in macchina. Gli abitanti hanno ingaggiato battaglia, ma più di un lugubre sovrappasso pedonale non sono riusciti ad ottenere. E’ una specie di ponte fortificato, in acciaio, lamiera e plastica metacrilata. Se ci si trova all’interno mentre cade un fulmime, si può sperare nell’effetto gabbia di Faraday: la pellaccia è salva, ma bisogna andare al più presto da un bravo parrucchiere. L’attraversamento è all’insegna dello stress: fisico, se si decide di affrontare i circa 50 scalini spingendo la bicicletta sullo scivolo; psico-fisico, se si decide di pigliare l’ascensore. Già l’aspetto esterno sa di trappola mortale. E’ tutto chiuso, una bara di cemento. Costava poi tanto di più una struttura metallica con una cabina trasparente? Si consideri poi che la bici in orizzontale non ci sta, quindi bisogna entrare di sguincio e tenersela addosso al groppone. Si consideri infine che spesso, come oggi, l’ascensore è fuori servizio. In ogni caso proviamo a bussare, si sa mai che qualcuno sia rimasto bloccato all’interno, Il pulsante di emergenza c’è, il problema è capire con chi è collegato: l’ufficio dell’assessore alla mobilità? la direzione FS a Verona? il parroco di Setteca’? Meglio non trovarsi mai nella situazione di scoprirlo. Arranchiamo dunque per la rampa, gradino dopo gradino, fino alla cima. La passerella di ferro è un tunnel piombato con parapetti e pareti che riportano le miserabili gesta di erotomani, grafomani e coprografi. Qui ci starebbe bene un predicozzo su quanto siano odiosi questi imbrattamenti che non risparmiano chiese, monumenti, panchine e proprietà pubbliche e su quanto sarebbe necessario reprimerli e sanzionarli col carcere duro e i lavori forzati. Se non siete d’accordo e propendente per un atteggiamento più indulgente, domani mattina svegliatevi di buon ora e salite le Scalette di Monte Berico. Quasi verso la fine potrete leggere l’entusiasticamente idiota scritta spray “Principessa sei nel mio cuore”. Più oltre, la piccola terrazza segnata dai quattro obelischi è un altro delirio di giovani Werther che hanno evitato il suicidio grazie alla bomboletta. Cosa dite, l’ergastolo? Ma no, è sufficiente un annetto a bitumare forzosamente i marciapiedi. Si parla tanto di bullismo e di disagio giovanile e non ci si rende conto che sta passando alla cassa una generazione di impuniti, viziati e irresponsabili. E abbiamo abolito pure l’extrema ratio pedagogica, cioè il servizio di leva obbligatorio. Io ho fatto un anno da alpino, dopo la laurea, a 26 anni ed ero già dritto di mio. Ma posso giurare di aver visto centinaia di bamboccioni smarriti e smidollati trasformarsi in persone autenticamente coscienti. Non sono un fanatico militarista, ancora adesso mi capita di svegliarmi dall’incubo che sono in caserma e mancano ancora cinque mesi al congedo. Ma la vita comunitaria, qualsiasi forma abbia, insegna che il bene comune viene prima di quello individuale. Un consorzio civile potrebbe reggersi su quest’unico principio. Che mi sembra stiamo fatalmente perdendo.Speriamo che la bicicletta porti un poco di ottimismo e scesi dal ponte di Londra, pedaliamo fino a Setteca’. Al massacro commerciale e viario perpetrato di la della statale, il paesino ha resistito stoicamente, opponendo un’identità fatta di poco, ma ferrea. L’antica pieve, la roggia Caveggiara, un’anconetta, la chiesa nuova, il campo da calcio e la scuola elementare. Mia mamma vi ha insegnato fino alla pensione e noi sei figli l’abbiamo frequentata da scolari. Io l’ha avuto anche come maestra, dalla seconda alla quinta. Non per sua scelta, figurarsi se per mia. E’ accaduto e basta. Già è dura essere figlio di una maestra: esserne anche l’alunno è un privilegio devastante. Se prendevo un bel voto, mi sentivo colpevolmente il figlio della maestra. Se prendevo un brutto voto, mi sentivo colpevolmente il figlio della maestra. Non avevo scampo. Anche mia mamma, a pensarci. E d’altra parte come facevamo entrambi a scordarci dalle otto a mezzogiorno di essere madre e figlio? E come da mezzogiorno alle otto di essere maestra e scolaro? Alla fin fine non è stato un trauma così grande: ne scrivo da tranquillo ciclonauta e voglio bene alla mia maestra, pardon, mamma. All’incrocio con la statale prendiamo a sinistra verso Torri. Sfiliamo davanti al centro direzionale dell’ex-Banca Cattolica del Veneto, passiamo il ponte palladiano sul Tesina, la chiesa, il municipio, la villa e ci buttiamo a sinistra sul lungo rettilineo che si spegne davanti alla stazione di Lerino. Seguendo la palizzata di cemento della ferrovia si imbocca il percorso ciclopedonale che porta al sottopassaggio, ma noi lo lasciamo alle spalle e tiriamo diritti fino a una grande rotatoria sperduta nei campi. Qui giriamo a sinistra e disdegnando l’attacco del primo cavalcaferrovia, imbocchiamo via Fornaci sulla destra e la seguiamo fino al secondo scavallo ferroviario. Snobbiamo anche questo tenendo sempre la destra e ci avviamo per una stradina di sassi che corre a fianco della ferrovia. Siamo nel mezzo del triangolo Vancimuglio-Grumolo-Sarmego, terra dei miei nonni e bisnonni del versante materno. In questi bassi orizzonti di risaie, fossi e campi si materializzano i racconti di mia nonna. Le battute di pesca nelle rogge piene di scardole, tinche, lucci, pescegatti. Non si usava la canna da pesca, non c’era mica tempo da perdere: uno batteva l’acqua con un bastone e più avanti l’altro tirava su i pesci con la rete. Ai primi tepori di aprile i lucci si addormentavano a pelo d’acqua e il fratello della nonna li sorprendeva con un cappio. Anche mia mamma ricorda l’acqua trasparente e purissima che correva nelle rogge. Le stesse dove lo zio Papi di Sarmego prendeva i “gobi”, pesciolini tanto curiosi quanto imprudenti. Bastava immergere il palmo della mano nell’acqua e questi vi si appoggiavano tranquilli e beati. E mangiati. E le rane, racconta la nonna, che delizia le rane, meglio del pollo. C’era solo il ribrezzo della preparazione: taglio della testa e svuotamento delle interiora. “Avanti, devi farti coraggio”, le diceva sua madre. Tutto questo è scomparso da un pezzo: i campi sono iperazotati ed esausti, le rogge intubate e i rari fossi ospitano solo bottiglie di plastica. La strada bianca scompare, ma procediamo su un’esile pista di terra, ballonzolando sempre paralleli ai binari. Un airone ci osserva e si allontana con colpi d’ala lenti e maestosi. Una volta gli sparavano perché era considerato un trofeo, una specie di cervo dei cieli e le case dei cacciatori degni del nome avevano tutte un airone impagliato. Usciamo dai campi in prossimità di una strada e dell’ennesimo sottopasso. Un anziano ciclonauta, che un po’ si spaventa a un nostro cenno di fermarsi, ci spiega dove siamo. A destra si va a Sarmego e a sinistra a Grumolo delle Abbadesse. Ci tocca di fare il sottopasso e sbucati all’incrocio con via Rasega, giriamo a destra verso Santa Maria di Camisano, circa un paio di chilometri. Santa Maria è una frazione-comune. Dista un tiro di schioppo da Camisano, ma si annusa nell’aria una certa indipendenza e un forte orgoglio identitario. La ragione è presto svelata poco distante dalla chiesa, nel magnifico complesso secentesco di villa Capra, un pezzo di architettura che Camisano, il paese degli acquisti, se lo sogna. Abbiamo la fortuna di entrarvi e scattiamo delle foto col permesso di uno dei proprietari. La villa, disabitata, versa purtroppo in condizioni pietose. La soprintendenza tempo fa ha fatto degli interventi d’urgenza, cioè puntellato i muri portanti e riattato il tetto. Il resto rovina lentamente, come la cappella e la magnifica torre colombara, già fessurata e in attesa del colpo di grazia. La barchessa è spettacolare: 14 archi di ordine gigante ne scandiscono il prospetto su un’aia che pare un’aerostazione per dirigibili. Si doveva continuare per Camisano, ma la visita alla villa ne ha sottratto il tempo e si ritorna verso casa. Stavolta pigliamo la strada Camisana che porta fino a Lerino e a Torri. Non prima però di comprare il pane e dei tranci di pizza nel panificio di Santa Maria, uno dei migliori del Nord Europa. Da Torri di Quartesolo rientriamo sulla destra a Setteca’, ma diversamente dall’andata si va diritti, lasciando alla sinistra strada del Paradiso. Ultimo sottopasso e ultima sorpresa: prima di arrivare a Bertesinella si passa davanti a villa Folco. Sulla facciata è ancora leggibile la scritta “Ospedaletto da campo n.165”. Con sicurezza possiamo solo dire che si riferisce alla Grande Guerra. Chissà quali e quante storie hanno udito quei muri, chissà i feriti che ha ospitato, chissà da quali fronti e quali battaglie arrivavano. Se qualcuno ha già scavato, si faccia avanti; se altri ne ha intenzione, benvenuto. Noi, ciclonauti di scarse risorse, segnaliamo e passiamo la palla. In viale della Pace ci salutiamo. Si potrebbe anche osare l’ultimo sottopasso appena dopo l’entrata della Ederle e tornare per la strada di Casale (ah dimenticavo, c’è anche il sottopasso dello stadio). Ma quello di oggi è stato un percorso troppo denso, nello spazio e nel tempo, ed è meglio correre a casa a rassicurare un presente che già si sente orfano. Al prossimo giretto.